Il principio di responsabilità di Hans Jonas: sviluppi e prospettive nell’implementazione dello sviluppo sostenibile e dei diritti della natura. Riflessioni etico-giuridiche

Hans Jonas’ Principle of Responsibility: Developments and Perspectives in the Implementation of Sustainable Development and of the Rights of Nature. Ethical-Legal Reflections

El principio de responsabilidad de Hans Jonas: evolución y perspectivas en la implementación del desarrollo sustentable y de los derechos de la naturaleza. Reflexiones ético-jurídicas

Silvia Salardi
Università di Milano-Bicocca, Italia

Il principio di responsabilità di Hans Jonas: sviluppi e prospettive nell’implementazione dello sviluppo sostenibile e dei diritti della natura. Riflessioni etico-giuridiche

Isonomía. Revista de Teoría y Filosofía del Derecho, no. 59, 2023, pp. 104 -135

Ricevuto: 24 August 2022

Accettato: 20 March 2023

Riassunto: Dal 1992, anno della Conferenza di Rio per la Terra, ad oggi è trascorso un lasso di tempo sufficiente per valutare se e come il principio di responsabilità, nella versione elaborata da Hans Jonas, sia stato attuato a livello normativo in relazione alle questioni ambientali connesse al cambiamento climatico, sia in ambito internazionale che europeo. In particolare, lo studio dell’evoluzione politico-giuridica dello sviluppo sostenibile rappresenta un interessante osservatorio da cui valutare la capacità dell’umanità di non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra. A muovere da queste considerazioni, l’articolo si propone di analizzare, lungo due direttrici, l’attuazione etico-giuridica del principio di responsabilità formulato da Jonas. La prima direttrice avrà a oggetto alcuni dei principi che hanno costruito la struttura etico-giuridica dello sviluppo sostenibile a livello internazionale ed europeo. La seconda direttrice si concentrerà sulla proposta per una EU Fundamental Charter for the Rights of Nature. L’intento critico e, per certi versi, provocatorio dell’articolo è di riaccendere l’attenzione sugli elementi emergenti dagli spunti riflessivi di Jonas e dalla visione originaria dello sviluppo sostenibile, che possono essere utili a determinare il cambiamento di rotta auspicato decenni fa, ma non ancora portato a compimento.

Parole chiave: Hans Jonas, responsabilità, sviluppo sostenibile, cambiamento climatico, diritti della natura.

Abstract: The period between 1992, date of the Rio Earth Summit, and today is long enough to assess whether and how the principle of responsibility elaborated by Hans Jonas has been implemented at the normative level regarding environmental issues related to climate change, both at the international and European level. In particular, the study of the political-legal evolution of sustainable development represents a fruitful way to assess the ability of humanity to not put in danger the conditions for the indefinite survival of humanity on earth. In light of the previous considerations, the paper analyses the ethical-legal implementation of Jonas’ principle of responsibility following two directions. The first one focuses on some principles at the basis of the ethical-legal architecture of sustainable development at the international and European level. The second one addresses the proposal for the EU Fundamental Charter for the Rights of Nature. The critical and thought-provoking aim of the paper is to revive attention to elements emerging from Jonas ethical approach and from the original version of sustainable development that may be useful to produce the radical shift hoped for decades but not yet achieved.

Keywords: Hans Jonas, responsibility, sustainable development, climate change, rights of nature.

Resumen: Desde 1992, año de la Cumbre de la Tierra celebrada en Río, hasta la actualidad, ha transcurrido tiempo suficiente para evaluar si el principio de responsabilidad, en la versión elaborada por Hans Jonas, se ha aplicado a nivel normativo en relación con las cuestiones medioambientales relacionadas con el cambio climático, tanto en el ámbito internacional como en el europeo, y de qué manera. En particular, el estudio de la evolución político-jurídica del desarrollo sustentable representa un interesante observatorio desde el que evaluar la capacidad de la humanidad para evitar poner en peligro las condiciones de supervivencia indefinida de la humanidad sobre la tierra. Partiendo de estas consideraciones, el artículo propone analizar, siguiendo dos líneas, la aplicación ético-jurídica del principio de responsabilidad formulado por Jonas. La primera línea se centrará en algunos de los principios que han construido la estructura ético-jurídica del desarrollo sustentable a nivel internacional y europeo. La segunda línea se centrará en la propuesta de Carta Fundamental de los Derechos de la Naturaleza de la UE. La intención crítica y, en cierto modo, provocadora del artículo es reavivar la atención sobre los elementos que se desprenden de las reflexivas ideas de Jonas y de su original visión del desarrollo sustentable, que pueden ser útiles para propiciar el cambio de rumbo esperado hace décadas, pero aún no materializado.

Palabras clave: Hans Jonas, responsabilidad, desarrollo sustentable, cambio climático, derechos de la naturaleza.

I. Introduzione

Dal 1992, anno della Conferenza di Rio per la Terra –ma potremmo addirittura risalire al 1972, anno della Conferenza di Stoccolma su Ambiente Umano– ad oggi è trascorso un lasso di tempo sufficiente per valutare se e come il principio di responsabilità, nella versione elaborata da Hans Jonas, sia stato attuato a livello normativo in relazione alle questioni ambientali connesse al cambiamento climatico, sia in ambito internazionale che europeo. In particolare, lo studio dell’evoluzione politico–giuridica dello sviluppo sostenibile rappresenta un interessante osservatorio da cui valutare la capacità dell’umanità di non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra (Jonas 1979: 16). In poche parole, tale osservatorio è utile per valutare se le scelte, operate nei decenni scorsi, relative agli scopi a cui orientare l’attività umana, siano state coerenti con la visione etica originaria dello sviluppo sostenibile.

Propedeutica a questa valutazione è una seria riflessione etico-giuridica attorno alla categoria della responsabilità, seguendo la chiave di lettura, già a suo tempo individuata da Jonas, ossia il suo orizzonte aperto (Jonas 1979: 18). Questo orizzonte aperto era stato opportunamente incluso nella visione etica originaria, sottesa all’elaborazione dello sviluppo sostenibile, inaugurata a livello internazionale con il Rapporto Bruntland del 1987.1 La sostenibilità ambientale diviene, da quel momento, una questione di giustizia sociale e chiama in causa la riflessione etica, prima ancora di quella politica ed economica (Sen 2010). La versione dello sviluppo sostenibile sviluppata a partire dal 1987 e consolidata nelle più rilevanti tappe di politica internazionale –dalla Conferenza di Rio del 1992 al Summit di Johannesburg 2002– si fonda sull’imperativo di un’integrazione2 tra i pilastri dello sviluppo sostenibile da intendersi come una vera e propria equa riconciliazione (reconciliation)3 (Cordonier Segger, Weeremantry 2004) tra tutela ambientale, esigenza di sviluppo economico e considerazioni sociali. È proprio questo, però, l’aspetto su cui l’implementazione giuridica dello sviluppo sostenibile non si è rivelata soddisfacente. Ciò si è verificato non tanto perché gli strumenti apprestati non siano tecnicamente adeguati a rispondere ad alcune esigenze della sostenibilità ambientale, quanto piuttosto per una riduzione della sostenibilità ambientale alla questione meramente tecnico-giuridica. Come vedremo, si è sostanzialmente avvalorata giuridicamente una visione dello sviluppo sostenibile riduttiva rispetto alle aspettative iniziali, in quanto si è dato prevalenza alla ricerca delle sole soluzioni tecniche e alla loro regolamentazione giuridica (es. valutazione di impatto ambientale), piuttosto che utilizzare il potenziale performativo del diritto e del suo linguaggio per realizzare le condizioni per un cambiamento culturale ed etico, utile a rendere la sostenibilità ambientale permanente, anche attraverso serie e coerenti scelte politiche a livello globale. Con riguardo alle questioni ambientali, infatti, puntare principalmente, se non esclusivamente, sulle soluzioni tecniche è un atteggiamento miope. Già Garrett Hardin (1968) aveva messo in guardia dai rischi della tendenza della società contemporanea ad affidarsi alle sole opzioni tecniche4, senza adoperarsi seriamente per affrontare la questione morale implicata dalla gestione tecnica dei beni comuni.

Tale atteggiamento tecnocentrico è un portato dell’epoca tecnologica, in cui si affronta ogni sfida sulla base di un mandato principalmente, se non esclusivamente, tecnico-scientifico, ingenerando la falsa aspettativa che i nostri problemi siano sempre risolvibili mediante il ricorso alla tecnologia. Tuttavia, se ci si arresta alla ricerca della sola soluzione tecnica si rischia di non vedere che, spesso, dietro al problema tecnico si nascondono precisi assunti etici riguardanti la spettanza delle decisioni e la precostituzione della direzione in cui procedere.

In buona parte, è questa la causa principale del fallimento della tutela giuridica internazionale ed europea dell’ambiente, vale a dire la focalizzazione dell’attenzione prevalentemente, se non esclusivamente, sulle questioni tecniche, tralasciando di accompagnare il percorso tecnico con stimoli seri per un cambiamento a livello di coscienza individuale e collettiva. In questo vuoto istituzionale, alcune iniziative partono dal basso, come il movimento Fridays for Future di Greta Thunberg, nato spontaneamente e con grande risonanza a livello internazionale. Sono iniziative lodevoli, ma non in grado di segnare un drastico cambiamento di rotta e di garantire la coerenza delle scelte politiche, senza la quale ogni imperativo resta solo sulla carta.

Il fallimento delle politiche e degli strumenti giuridici apprestati per far fronte al cambiamento climatico è testimoniato dall’aumento dei conflitti ambientali e sociali. Di fatto, il fallimento della tutela ambientale è un fattore essenziale di previsione dell’andamento negativo del conflitto intergenerazionale nel lungo termine (Pisanò 2022). Ecco perché per affrontare correttamente l’orizzonte aperto della nostra responsabilità è cruciale rivisitare categorie etico-giuridiche strettamente correlate a quella della responsabilità –si pensi a quella della personalità giuridica– per affrontare non solo le questioni tecniche, ma anche quelle valoriali e morali sottese, in quanto la scienza naturale non esaurisce l’intera verità della natura (Jonas 1979: 13).

A muovere da queste considerazioni, l’articolo si propone di analizzare, lungo due direttrici, l’attuazione etico-giuridica del principio di responsabilità formulato da Jonas. La prima direttrice avrà a oggetto i principi che hanno costruito la struttura etico-giuridica dello sviluppo sostenibile a livello internazionale ed europeo (tra cui il principio delle responsabilità comuni ma differenziate, il principio di equità intergenerazionale, il principio di precauzione e il principio di sostenibilità delle risorse naturali). La seconda direttrice si concentrerà sulla proposta per una EU Fundamental Charter for the Rights of Nature5, pensato come strumento per allineare i nostri sistemi sociali ed economici alla rigenerazione della natura. L’intento critico e, per certi versi, provocatorio dell’articolo è di riaccendere l’attenzione sugli elementi, emergenti dagli spunti riflessivi di Jonas e dalla visione originaria dello sviluppo sostenibile, che possono essere utili a innescare il cambiamento di rotta auspicato decenni fa, ma non ancora portato a compimento.

II. La crisi della responsabilità tradizionale e il nuovo orizzonte aperto

Prima di presentare e discutere la visione originaria dello sviluppo sostenibile e la sua controversa attuazione, converrà spendere qualche parola a proposito del concetto di responsabilità su cui si basa la riflessione dello stesso Jonas. In particolare, occorre ritornare alle radici definitorie di tale concetto. Tale operazione è utile ad approfondire le criticità di implementazione, sul piano giuridico, dell’imperativo che Jonas formulò con lo scopo di affrontare l’inedita eccedenza delle conseguenze dell’agire umano sulla natura e sulla stessa specie umana. Secondo tale imperativo, bisogna infatti agire “in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra” oppure anche agire “in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita”, oppure ancora bisogna “non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra” o, in positivo, includere “nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà” (Jonas 1979: 16). In tutte le sue declinazioni, positive e negative, l’imperativo è volto agli effetti futuri delle azioni delle generazioni presenti. È un imperativo che, diversamente da quello kantiano, si rivolge sia alle relazioni tra gli esseri umani sia a quelle tra gli umani e l’intera biosfera. Per Jonas, infatti, le capacità teoriche, con cui si identifica il soggetto razionale e capace di operare scelte sulla base di principi, non sono sufficienti a onorare l’imperativo da lui elaborato se il soggetto non le impiega per soddisfare gli interessi che caratterizzano l’essere umano come appartenente al mondo naturale (Wolsing 2013: 9). L’imperativo di Jonas ha un fondamento ontologico nell’essere umano che esiste, appartiene e si realizza in condizioni naturali, sociali e culturali (Wolsing 2013: 6). La responsabilità umana verso l’umanità deriva dall’assunto valoriale che “l’esistere” sia meglio del “non esistere”. Ed esistere è possibile solo entro la biosfera, che va, quindi, conservata. Pertanto, nella prospettiva di Jonas, per affrontare la questione della responsabilità è necessario partire dalla valutazione delle conseguenze negative dell’agire (in dubio pro malo), piuttosto che da quelle positive. In poche parole, è la paura/timore di queste conseguenze che deve guidare le valutazioni prognostiche sulle conseguenze del nostro agire (Mantatov, Mantatova 2015: 1058).

A muovere da queste premesse, la responsabilità ontologicamente fondata di Jonas trova nell’elemento psicologico della paura6timore di genere intellettuale– (Jonas 1979: 36) l’euristica (heuristics of fear) per esigere un agire responsabile proporzionale al potere inedito di incidere, in maniera anche definitiva, sul sistema pianeta. Valuteremo in sede di proposte conclusive se il timore, così configurato, sia sufficiente per cambiare gli atteggiamenti etici delle persone nei confronti dell’ambiente.

Approfondiremo, invece, di seguito l’analisi della responsabilità per i cambiamenti climatici.

Con particolare riferimento a questo tema, va innanzitutto rilevato che la responsabilità etica degli esseri umani deriva dal fatto che “tale cambiamento modifica le condizioni della specie umana sulla terra coinvolgendo i suoi interessi in modi negativi” (Lecaldano 2012: 90). In questo contesto, la stessa nozione di responsabilità comporta elementi nuovi, “mentre restano ferme le basi assiologiche con cui valutiamo le condotte come negative o positive” (Lecaldano 2012: 90; Pellegrino 2012).

In tale scenario, Jonas pone proficuamente la questione dell’orizzonte aperto della nostra responsabilità (Jonas 1979: 18). È proprio questa singolare peculiarità della responsabilità, inserita nella civiltà tecnologica, che esige una breve analisi delle caratteristiche della nozione di responsabilità per due motivi: 1) analizzare i profili di crisi della responsabilità tradizionalmente intesa7; 2) valutare la necessità di ridefinire i confini semantici nella nuova dimensione tecnologica. Questa operazione è utile sia per l’analisi della responsabilità morale sia per quella giuridica, che seppure differenti, hanno radici comuni. Va, innanzitutto, ricordato che responsabilità è primariamente un concetto normativo8, che si usa “quando certi fatti cadono sotto certe norme” (Scarpelli 1985: 189), siano esse morali o giuridiche. Una definizione generale di responsabilità utile ai nostri fini è quella offerta da Uberto Scarpelli. Egli definisce la responsabilità nel modo seguente:

Dico di un soggetto che ha od aveva responsabilità se ha, o aveva, un dovere di comportamento; se è a lui eventualmente riferibile, o attualmente riferito, un comportamento in sé stesso oppure in quanto produttivo di certi effetti, contrastante con il dovere, e pertanto oggetto di valutazione negativa; se, in dipendenza dal riferimento del comportamento oggetto della valutazione negativa, è a lui eventualmente imputabile o attualmente imputata, una conseguenza, a sua volta oggetto di una valutazione negativa (Scarpelli 1982a: 47).

Tale definizione consente di intercettare gli elementi costitutivi della responsabilità tradizionale e di dare conto delle modifiche di questi elementi, che, a loro volta, inducono l’attuale crisi9, di cui soffre tale categoria nel mutato universo discorsivo in cui viene impiegata. In tale universo, sono cambiati i tempi della responsabilità, la causalità della responsabilità, i soggetti responsabili e le caratteristiche delle loro condotte, nonché i beni, che tramite l’attribuzione di responsabilità, si vogliono tutelare. Più nel dettaglio, possiamo evidenziare che la condotta non è più quella riferibile a un singolo soggetto. Sebbene la condotta individuale giochi ancora un ruolo importante nella catena di cause che inducono il cambiamento climatico, essa va valutata in una dimensione cumulativa con altre condotte. La causalità tra agente e azione non può più essere intesa come stretta causalità. Inoltre, le condotte di cui ci occupiamo tendono ad avere carattere diffuso, globale e a produrre effetti che si spiegano ben oltre la vita degli agenti, con caratteristiche peculiari, come la loro potenziale irreversibilità. Individuare i soggetti responsabili del disastro ambientale e climatico di cui siamo testimoni non è, pertanto, semplice. Si intrecciano dimensioni distinte di responsabilità, che chiamano in causa vari attori a livelli diversi: dalla comunità internazionale, agli stati, alle comunità locali fino all’individuo. Alcune condotte poi non sono di per sé necessariamente riprovevoli moralmente, in quanto la loro illiceità, morale e giuridica, deriva dal mutamento delle condizioni e dei contesti in cui tali condotte si configurano in un dato momento storico, ad esempio, come sprechi di risorse scarse e non rinnovabili10. A ciò si aggiunga che gli esiti delle condotte non sono immediati e certi, ma si estendono, nel tempo, con effetti non sempre prevedibili11.

Inoltre, le condotte esplicano effetti su destinatari non umani –animali e risorse naturali– che, nell’etica della tradizione occidentale di stampo antropocentrico, non hanno valore in sé (Aristotele 1972; Tommaso d’Aquino 2017; Kant 2013)12. È vero che, negli ultimi decenni, vi sono stati importanti ripensamenti (Bartolommei 2012; Singer 1981) sul rapporto tra uomo e natura, che hanno investito, modulandolo, l’assunto principale del dominio assoluto dell’uomo sulla natura, proprio della prospettiva tradizionale dei secoli precedenti13. La revisione di tale assunto ha messo in evidenza l’esistenza di doveri nei confronti della natura, che, nelle prospettive filosofiche più recenti, si spingono sino all’estensione del rispetto del principio di eguaglianza, ovvero dell’eguale considerazione degli interessi, anche a enti non umani, segnatamente gli animali (Singer 1975). Tuttavia, resta ancora inevasa la risposta alla domanda se animali e natura possano considerarsi vittime in senso forte e pertanto rivendicare dei diritti solo per sé. Riprenderemo questo aspetto quando ci occuperemo dei diritti della natura.

Continuando nella nostra riflessione sulla categoria della responsabilità, possiamo osservare che la crisi contemporanea dipende proprio dal suo orizzonte aperto –in termini temporali, causali, comportamentali–, dentro il quale l’identificazione della colpa conseguente a un’offesa e l’applicazione di una pena “imposed in the name of some community or society sharing some systems of values” (Lucas 1991: 89) diviene, di fatto, un’operazione oltremodo complessa. Nello scenario di una responsabilità a orizzonte aperto, non ci troviamo confrontati con l’antico dilemma sull’esistenza o meno del libero arbitrio quale fondamento della responsabilità (Hart 1968). Con riferimento ai cambiamenti climatici e al deterioramento dell’ambiente, il dilemma è di altro genere. Nel caso di specie bisogna, per un verso, capire se è possibile individuare un’intenzionalità collettiva, che ci investa di responsabilità in quanto appartenenti alla specie causa del deterioramento dell’ecosistema pianeta, e, per altro e connesso verso, capire come si forma una siffatta intenzionalità. Da cosa deriverebbe un’intenzionalità collettiva, dalla somma di tutte le libertà individuali? Non solo, ma chi è il titolare del dovere/obbligo di comportamento? Gli stati, i singoli, le comunità locali, la comunità internazionale, l’umanità, attori privati?

Senza entrare nei dettagli delle risposte alle citate domande, appare evidente che la categoria della responsabilità tradizionale, ossia riferita all’agire di un singolo individuo, presenta dei limiti notevoli. Tali limiti toccano anche la responsabilità collettiva attribuita agli enti14, che solo apparentemente si presta ad affrontare alcuni dei nodi dell’orizzonte aperto della responsabilità per i cambiamenti climatici, ma che, nel suo complesso, non rappresenta uno schema applicabile tout court. La responsabilità delle persone giuridiche è, infatti, costruita sulle basi della responsabilità individuale. La strategia, che consente di attribuire responsabilità morale e giuridica agli enti, si basa sull’identificazione di un soggetto –persona fisica– responsabile per le azioni dell’ente stesso. In ultima istanza, all’interno della persona giuridica si individua il titolare del dovere nella persona fisica definita dallo statuto e ad essa sarà comminata la sanzione. Storicamente, infatti, il superamento del principio di origine romanistica societas delinquere non potest è avvenuto con l’abbandono di approcci teorici tesi alla personificazione degli enti (intesi come macroantropi) e l’emergere di prospettive teoriche volte al riconoscimento che dietro le azioni di enti vi è sempre una persona fisica che agisce e su cui può ricadere la responsabilità, anche penale, per le condotte tenute (Kelsen 1952; Hart 1964; Scarpelli 1985). Nel caso della responsabilità per i cambiamenti climatici, lo schema della responsabilità delle persone giuridiche non appare utile a promuovere un serio cambio di paradigma. Ciò perché è la pluralità di soggetti (Quirico 2018) e delle loro condotte che rende oggettivamente complessa l’attribuzione di colpa e con essa l’individuazione della giusta sanzione. Dalle osservazioni che precedono consegue che la responsabilità tradizionale non è funzionale alla risoluzione dei problemi derivanti dal cambiamento climatico. Il motivo principale dell’inadeguatezza è il fatto che il suo archetipo è la responsabilità penale. Lo schema penalistico della responsabilità, pervenuto sino a noi, propone il trinomio colpa-responsabilità-pena. Seguendo questo schema, la pena è applicabile all’agente colpevole a seguito di un accertamento delle condizioni della responsabilità.

Questa procedura non si presenta lineare quando la responsabilità è caratterizzata da un orizzonte aperto. In tale situazione risulta complessa non solo –come osservato– l’identificazione del titolare dell’obbligo, ma altresì della tipologia di pena che meglio si adatta al caso di specie. Non da ultimo, risulta intricata anche l’applicazione della pena. Come ha osservato Luigi Ferrajoli, il diritto penale non può affrontare le catastrofi che derivano dai cambiamenti climatici, in quanto non sono configurabili come crimini in senso penalistico. Si tratta di aggressioni che:

il diritto penale non può fronteggiare dato che difettano di tutti i requisiti imposti dai suoi principi garantisti: dal principio di stretta legalità e determinatezza dei fatti punibili al nesso di causalità tra azioni individuali e cataclismi ambientali e sociali, fino al principio della responsabilità personale in materia penale (Ferrajoli 2022: 41).

A fronte dei richiamati limiti della responsabilità giuridica tradizionale, segnatamente di quella penale, è al ripensamento delle strategie giuridiche che si è volto lo sguardo durante il percorso di elaborazione dello sviluppo sostenibile a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Ispirati a una visione etica volta verso il futuro –quella che Jonas aveva a suo tempo definito l’etica per il futuro–, nei decenni successivi al Rapporto Bruntland, si è andati alla ricerca di un bilanciamento tra responsabilità storiche, responsabilità attuali e responsabilità future, cercando alternative allo schema della responsabilità tradizionale e promuovendo l’elaborazione del diritto internazionale dello sviluppo sostenibile (International Sustainable Development Law, ISDL), che avrebbe dovuto garantire la riconciliazione tra i tre pilastri dello sviluppo sostenibile.

In sintesi, nell’affrontare il cambiamento climatico e con esso le diversificate e correlate problematiche ambientali, lo schema tradizionale della responsabilità morale e giuridica, segnatamente nella declinazione penalistica, non è risultato funzionale a promuovere condotte virtuose e a operare il salto morale, culturale, sociale ed economico necessario per un impegno serio alla salvaguardia dell’esistenza umana e non umana. Se è vero che:

si è […] prodotto, soprattutto in questi ultimi decenni, un singolare appiattimento nel dibattito pubblico e nel senso comune, del giudizio giuridico, oltre che politico e morale, sui soli parametri del diritto penale” (Ferrajoli 2022: 43),

è altresì vero che la chiave di uscita dalle problematiche ambientali non è la via penalistica tout court, bensì il rafforzamento dell’obbligo di co-operazione globale e del processo di integrazione della tutela ambientale in tutte le attività umane con rilevanti implicazioni per l’ambiente e il clima.

Nel prossimo paragrafo analizzeremo l’implementazione giuridica dell’orizzonte aperto della responsabilità seguendo la narrazione giuridica dello sviluppo sostenibile.

Nella sua versione originaria, invero, la strategia giuridica dello sviluppo sostenibile aveva puntato all’attuazione del principio di integrazione degli aspetti ambientali nelle politiche nazionali e sovranazionali e alla promozione del principio di co-operazione globale, quali determinanti dell’auspicata svolta di paradigma, volta al superamento delle radicate dinamiche economico-finanziarie.

III. Lo sviluppo sostenibile e l’orizzonte aperto della responsabilità

Con la nozione di sviluppo sostenibile, promossa a livello internazionale da pubblicazioni come il richiamato Rapporto Bruntland e da eventi organizzati dalle Nazioni Unite come la Conferenza di Rio del 1992 e il Johannesburg World Summit del 2002, si riconosce che “human society is intrinsically related to wider ecological processes and the Earth’s natural resources” (French 2005: 10) e che “human beings have evolved within, depend on and are part of the world of nature” (Holdgate 1996: 1)15. L’ambizione è quella di riconciliare la tutela ambientale con lo sviluppo umano, superando la tradizionale dicotomia del dibattito su ambiente e sviluppo e individuando principi nuovi o declinando diversamente principi esistenti sul piano giuridico internazionale. Nel tempo la nozione di sviluppo sostenibile, che ha richiesto un lungo percorso di analisi e definizione per comprenderne le concrete modalità di attuazione, in particolar modo sul piano giuridico (Fracchia 2010), ha allargato il suo significato per includere questioni relative ai diritti umani (Boyle 2003), alla buona governance, all’eradicazione della povertà e alla salute. L’elaborazione dei Millennium Developments Goals (MDGs)16 ha contribuito a estendere il pendolo semantico di questo concetto. Questa estensione, che ha, per molti versi, complicato la definizione concettuale e l’implementazione pratica dello sviluppo sostenibile, non ha tuttavia pregiudicato il nucleo semantico minimo della nozione. Questo nucleo semantico è la protezione dell’ambiente mediante il principio di integrazione. Attorno a questo nucleo di significato si è costruita la nozione di equità intergenerazionale, ossia l’idea che:

present generation owes a debt to previous generations in terms of environmental resources bequeathed to it, and consequently has an equal responsibility to ensure that future generations have equal access to the environment and other natural resources (French 2005).

Questa originaria versione dello sviluppo sostenibile, che punta a dare la giusta visibilità e voce al pilastro dell’ambiente rispetto alla società e all’economia (three pillars model), richiama implicitamente l’imperativo di Jonas. È, infatti, una visione aperta al futuro con forte connotazione precauzionale, che pone l’accento sulla tutela e salvaguardia dei beni fondamentali (Ferrajoli 2022: 115) come chiave per preservare l’esistenza dell’umanità sulla terra. Diversamente dalla prospettiva di Jonas, però, l’elaborazione politica e successivamente giuridica della tutela della vita sulla terra, attraverso il raggiungimento dello sviluppo sostenibile, non parte da premesse finalistiche e metafisiche né si concentra sull’euristica della paura come principale vettore del cambiamento. La logica originaria dello sviluppo sostenibile si manifesta piuttosto nell’attenzione rivolta all’ambiente e alle risorse naturali come elementi costitutivi del nuovo ordine delle cose, in cui non vi è più una gerarchia predeterminata secondo cui gli interessi economici debbano sempre prevalere, bensì persegue un’equa e integrata considerazione degli interessi ambientali nelle dinamiche sociali ed economiche17.

Nella visione originaria dello sviluppo sostenibile è presente anche la consapevolezza dell’orizzonte aperto della responsabilità, verso i presenti e verso le generazioni future, oltre alla questione controversa della responsabilità storica e del conseguente problema di individuare criteri per distribuire tale responsabilità tra i diversi attori del presente.

I principi adottati per affrontare la dinamicità della responsabilità verso il futuro e, al contempo, la sua dimensione storica sono ben chiariti nella Dichiarazione di Nuova Delhi18 del 2002, elaborata da un corposo gruppo di giuristi e giudici dell’International Law Association (ILA) nelle more del Summit di Johannesburg. Riprendendo aspetti già menzionati nella Dichiarazione di Rio (1992), dando tuttavia maggiore definizione giuridica ai principi ivi richiamati19, il tema della responsabilità in chiave storica è affrontato, nella Dichiarazione di Nuova Delhi, riprendendo la formula delle responsabilità comuni ma differenziate, mentre l’approccio precauzionale trova espressione mediante il principio di precauzione da applicarsi nei confronti della salute umana, delle risorse naturali e degli ecosistemi. Lo sguardo alle presenti e future generazioni è richiamato dal principio di equità e abolizione della povertà e da quello dell’uso sostenibile delle risorse naturali20. Questi principi si riferiscono implicitamente all’orizzonte aperto della responsabilità. Il principio delle responsabilità comuni ma differenziate tiene conto, in prospettiva storica, delle condotte che maggiormente hanno contribuito al deterioramento dell’ambiente e delle condizioni climatiche, attribuendo maggiori oneri a quei paesi che storicamente hanno guadagnato dallo sviluppo economico. Fu un principio esplicitamente contrattato alla Conferenza di Rio del 1992, da paesi come la Cina, che ascrivono la responsabilità storica del deterioramento ambientale ai paesi occidentali. Rispetto a tale principio occorre ricordare che fu chiamato in causa per superare “la distribuzione diseguale di una specifica risorsa come limitata –la capacità del pianeta di assorbire le emissioni di gas serra” (Pellegrino 2012: 121). La ragione etica di tale principio risiede in una evidente sproporzione tra sviluppo e sfruttamento delle risorse da parte di pochi paesi. Questa sproporzione era evidente durante i negoziati del 1992. Tuttavia, da allora sono passati diversi decenni e alcuni dubbi su questa tipologia di responsabilità si possono oggi sollevare.

Vi è da chiedersi, in particolare, se persistano ancora, nella loro pienezza, le ragioni che giustificano il mantenimento di questo principio o se, invece, non sia opportuna una sua revisione. Se nel 1992 questa tipologia di responsabilità storica poteva avere una ragion d’essere e la conseguente adozione del principio poteva avere una giustificazione etica, è più difficile nell’attuale scenario, a trent’anni di distanza da Rio e a più di cinquant’anni dalla Conferenza di Stoccolma, continuare a guardare alle responsabilità storiche come a un principio eticamente solido per superare l’attuale e praticamente irreversibile crisi climatica e ambientale. Sorge pertanto il dubbio se il principio delle responsabilità comuni ma differenziate non rappresenti, attualmente, almeno per alcuni, un’euristica ideologica per non affrontare le importanti trasformazioni a livello strutturale richieste dall’originaria visione dello sviluppo sostenibile.

Se volgiamo lo sguardo alla strada imboccata da un altro principio cardine dell’originaria visione dello sviluppo sostenibile, ossia il principio di precauzione21, fortemente sostenuto da Jonas, ci avvediamo di alcune criticità a cui è andato incontro in fase interpretativa.

Questo principio sta tacitamente lasciando il passo a quello di prevenzione. I due principi hanno una sottile, ma sostanziale, differenza: mentre quello di precauzione chiede che si agisca per prevenire rischi incerti e basati su indizi, quello di prevenzione si applica quando i rischi sono oggettivi e provati. La graduale sostituzione del principio di precauzione con quello di prevenzione22 può, per alcuni, rappresentare l’inevitabile destino delle interpretazioni deontologiche del principio di precauzione. Sul piano etico-filosofico si possono, invero, individuare due opposti approcci al principio in oggetto. Da una parte, vi è chi lo intende in un’ottica consequenzialista, che dà prevalenza alla valutazione degli effetti positivi delle azioni. Dall’altra parte, vi sono coloro –e tra questi Jonas– che lo interpretano in chiave deontologica, come un dovere categorico da rispettare a prescindere dalla considerazione vincolante delle conseguenze delle azioni e in tale prospettiva lo si configura come un potente freno all’innovazione. Se interpretato in questo senso, diviene di fatto una barriera invalicabile per ogni tipo di innovazione. Tuttavia, non è questo il senso profondo di questo principio. Il nucleo condiviso di significato non esige tanto che, in ogni circostanza, si prevedano divieti assoluti, quanto piuttosto che si compia uno sforzo preventivo in assenza di specifiche prove scientifiche del danno. È un principio sì forte, ma non assoluto e oggettivo. Non è un principio che esige di frenare il progresso economico e tecnologico in ogni circostanza –come molti detrattori di questo principio sostengono– ma ci mette di fronte alla scelta se rischiare, sempre e comunque, il tutto per tutto in assenza di certezza scientifica o se, in certe situazioni, rallentare e adottare un atteggiamento criticamente riflessivo e precauzionale “come metodo al quale ispirare i necessari interventi di una regola giuridica capace di mantenere fermo il riferimento ai diritti fondamentali” (Rodotà 2012: 371).

Non è un principio che esige di adottare indiscriminatamente divieti e inibire progresso e innovazione. È un principio utile, invece, a contrastare la folle e accelerata corsa a un’innovazione avulsa da ogni riflessione critica. Esso consente di proteggere allo stesso modo i diritti delle persone e i beni fondamentali perché vitali23 (Ferrajoli 2022: 115), in mancanza dei quali non vi sono soggetti a cui attribuire diritti. Prendere posizione a favore del principio di precauzione non significa ingaggiare una lotta sul piano filosofico per affermare una posizione consequenzialista o al contrario una deontologica. Al contrario! Prendere partito per tale principio significa riconoscere l’urgenza della prassi, ossia prendere effettiva coscienza che, allo stato attuale del deterioramento ambientale e climatico, la scelta più saggia è prevedere, in certi settori di attività e in certe condizioni, un obbligo forte di precauzione sul piano delle strategie giuridiche, seguendo pertanto un’interpretazione restrittiva.

Dal successo del principio di precauzione dipende la traduzione in pratiche effettive di altri principi, in particolare dei principi di equità e abolizione della povertà e dell’uso sostenibile delle risorse naturali. Senza precauzione non vi è la possibilità di garantire la preservazione delle risorse naturali e con esse la possibilità di un equo accesso da parte di generazioni presenti e future e, quindi, evitare un progressivo, ma inesorabile impoverimento. È la cronaca dell’estate 2022 a testimoniare il fallimento di questi principi24, non perché irrealizzabili in quanto utopici, ma perché, per la loro realizzazione pratica, esigevano, anni fa, quel cambio di paradigma che non si è mai avverato per motivi egoistici e atteggiamenti interessati solo a ciò che accade nel breve termine25.

È la storia dell’umanità quella di reagire quando tutto sembra perso: nel senso comune diremmo ‘all’ultimo minuto’. Questo atteggiamento però non funziona nello scenario attuale, perché il livello di criticità è tale che quando tutto sarà perso o quasi, la nostra reazione non avrà alcun effetto. La storia dello sviluppo sostenibile, che abbiamo iniziato a narrare a fine anni Ottanta del secolo scorso, è in buona parte rimasta sulla carta26 sia perché i principi che avrebbero dovuto realizzarla sono stati nel tempo interpretati in maniera debole e fluida –basti pensare all’assenza di una definizione universalmente condivisa del principio di precauzione– sia perché la narrazione dello sviluppo sostenibile ha, a sua volta, subito varie interpretazioni che l’hanno portata lontano dalle sue origini. Come è stato osservato “the concept of sustainable development, devised as a strategy of tomorrow, was transformed into policy of coordination of selfish interests of merely today” (Mantatov, Mantatova 2015:1060). Con il trascorrere del tempo, la narrazione dello sviluppo sostenibile si è sempre più limitata alla risoluzione delle questioni tecniche, attraverso strumenti giuridici come la valutazione di impatto ambientale, trasformata in un mero controllo formale o come il sistema di tagli delle emissioni stabiliti a suo tempo dal Protocollo di Kyoto, non sottoscritto da tutti i paesi e, quindi, privo del respiro globale originariamente auspicato. In questo scenario si è andata sviluppando la corporate sustainability (Dauvergne 2016). Questa nozione richiama un’accezione ristretta di sostenibilità, in quanto non si mira realmente alla sostenibilità del pianeta, che è, invece, l’obiettivo del modello a tre pilastri dello sviluppo sostenibile nella sua originaria formulazione. Al centro di questa nozione di corporate sustainability permane lo sviluppo economico come prioritario obiettivo da perseguire.

Dalle osservazioni che precedono è possibile comprendere alcune rilevanti ragioni di fondo del fallimento dello sviluppo sostenibile nel realizzare il cambio di paradigma necessario a salvare il pianeta e l’umanità. A ciò si aggiunga la mancanza di una struttura internazionale in grado di realizzare il progetto su scala globale in modo vincolante, obbligando gli stati all’obbedienza e al rispetto delle prescrizioni giuridiche sia in tema di cooperazione sia di integrazione. Quest’ultima risulta scarsa, soprattutto per quello che riguarda l’integrazione del pilastro economico con quello ambientale, anche perché “the broader architecture of governance of sustainable development […] is fragmented” (Biermann 2014: 94).

A fronte delle sopra rilevate criticità di attuazione dello sviluppo sostenibile, a livello istituzionale europeo sono state elaborate proposte per un allargamento della sfera dei diritti fondamentali alla natura come fondamento per la sostenibilità (European Economic and Social Committee 2019). Nel prossimo paragrafo affronteremo questo tema.

IV. I diritti della natura: una breve riflessione

Hans Jonas si chiedeva se, dovendo ampliare la visione etica per affrontare le sfide delle nuove modalità di agire umano e delle sue implicazioni, la natura non “avanzi nei nostri confronti una sorta di pretesa morale, non soltanto a nostro ma anche a suo favore e in base a un proprio diritto” (Jonas 1979: 12). Se così fosse, sostiene l’autore, “sarebbe necessario un ripensamento non di poco conto dei fondamenti dell’etica” (Jonas 1979: 12) e, aggiungiamo noi, delle categorie giuridiche. Ed è su quest’ultimo aspetto che ci soffermeremo in questo paragrafo, in quanto il riconoscimento di diritti a enti non umani richiede una riflessione sulla categoria della personalità giuridica. L’attribuzione di diritti modifica infatti lo status giuridico della natura da oggetto di diritto a soggetto di diritto. Questa modifica va valutata sotto almeno tre profili: quello di tecnica giuridica; quello rafforzativo del modello originario di sviluppo sostenibile; quello performativo sul piano culturale.

In merito al primo profilo, la questione da affrontare in chiave filosofico-giuridica concerne la possibilità di estendere la categoria giuridica della personalità a enti non umani. Il problema non è di poco conto e ha radici storiche molto risalenti. Nella storia del diritto, la personalità giuridica, ossia chi è persona e chi non lo è, è una categoria fondamentale dalle vicende semantiche complesse. Il rapporto dei giuristi con questa categoria si è basato, per un lungo periodo, sulla concezione giusnaturalistica, che negando la dimensione storica del diritto ha incentivato una visione statica e fissa delle sue categorie. Il diritto inteso come diritto naturale è, infatti, immutabile e mira a custodire i valori ‘perenni’ dell’individuo. In tale prospettiva le categorie giuridiche devono salvaguardare e realizzare un ordine predefinito e prestabilito delle cose al cui centro sta l’essere umano. Questi orientamenti giuridici sono stati fortemente influenzati dalla visione essenzialistica della realtà, a cui segue un’immagine unitaria, statica e immutabile dei concetti e delle categorie giuridiche.

Ma anche prescindendo dalla matrice giusnaturalistica, la fissità delle categorie giuridiche (Borsellino 2018) e, quindi, della personalità giuridica è dipesa dall’attitudine concettualistica della dottrina giuridica, che ebbe, prima, nella Scuola dell’Esegesi francese e, successivamente, nella Scuola tedesca della giurisprudenza dei concetti due fondamentali punti di riferimento. Sebbene questi orientamenti siano stati oggetto di profonde critiche27, i loro assunti sono ancora latenti in atteggiamenti di molti giuristi moderni, che rifiutano il ripensamento delle categorie giuridiche per far fronte a nuove e inedite situazioni. Da queste posizioni deriva il diniego all’estensione della personalità giuridica agli animali e alle risorse naturali. Questa prospettiva è stata superata sia sul piano teorico sia sul piano pratico. Sul piano teorico, è stato messo in evidenza che persona non è un concetto descrittivo, bensì un concetto normativo, che si applica quando certi fatti sono normativamente regolati. Persona e individuo non sono sinonimi nel linguaggio normativo. Il secondo è un termine descrittivo, mentre il primo richiama un insieme di obblighi, diritti, e poteri regolati giuridicamente (Kelsen 1952). In virtù di questa specificazione, si può sostenere che è frutto di una scelta politica, culturale e sociale quella di estendere le prerogative proprie della persona giuridica a enti non umani28. Non vi è un ostacolo di natura tecnico-giuridica che impedisce tale estensione, ma solo una valutazione di opportunità se operare in tal senso o meno. A sostegno di queste affermazioni, vi sono le scelte operate da diversi ordinamenti giuridici di riconoscere la natura come persona sia con interventi sul piano delle norme costituzionali e legislative sia sul piano delle decisioni giurisprudenziali29. Il primo intervento normativo in tal senso risale al 2006 con la Tamaqua Borough Sewage Sludge Ordinance pubblicata nella Contea di Schuylkill in Pennsylvania30, nella quale si riconosce agli ecosistemi lo status giuridico di persona.

Ciò dimostra come non vi siano ostacoli tecnici che impediscano il riconoscimento tout court delle risorse naturali, degli ecosistemi e degli animali come persone giuridiche, aventi diritti propri. Questo riconoscimento consente un’importante operazione sul piano giuridico, ovvero dare una posizione di protagonista alla natura nel processo decisionale-politico, sociale ed economico. Si sottolinea, attraverso tale riconoscimento, che la natura deve essere rispettata e integrata in tutte le nostre azioni (European Economic and Social Committee 2019: 62). Sempre rimanendo sul piano tecnico, va considerato che la natura non può, ovviamente esercitare autonomamente tali diritti, ma dovrà essere rappresentata in giudizio.

Sebbene questo aspetto sia da alcuni visto come un ostacolo alla sua tutela effettiva, a parere di chi scrive, si tratta invece di un’opportunità per dare voce, non solo alla natura, ma anche alle comunità locali, la cui sussistenza dipende dalle risorse naturali, spesso oggetto di contese e conflitti con potenti attori economici. Individuando specificamente chi ha diritto di agire al posto della natura –ad esempio, appunto, gli abitanti delle comunità locali– si risolve anche uno dei tanti problemi legati all’orizzonte aperto della responsabilità, ossia quello di individuare i titolari di diritti, ma anche dei correlativi doveri. L’esempio richiamato poc’anzi della Tamaqua Borough Ordinance dà conto anche di questa questione. L’ordinanza richiama esplicitamente, nella parte dedicata all’enforcement (§ 260-65, G), che “any Borough resident shall have the authority to enforce this article through an action in equity brought in the Court of Common Pleas of Shuylkill County”. Dalla lettura dell’ordinanza nel suo complesso, emerge altresì come il diritto di agire per gli ecosistemi sia riconosciuto a chi da quegli ecosistemi trae le risorse per la propria esistenza.

Per quello che attiene al secondo profilo sopracitato, ossia l’utilità di un’attribuzione di diritti e con essa un’estensione di personalità giuridica alla natura come strumento rafforzativo dello sviluppo sostenibile, appare sicuramente una via da percorrere per invigorire la visione originaria sottesa alla nozione richiamata e agli obblighi ad essa sottesi. Tale visione ha nel mutuo ed equo bilanciamento dei tre pilastri –economico, sociale e ambientale– il nucleo genuino della sua sintassi logica. Attribuendo diritti alla natura si fortificano gli obblighi e i doveri nei suoi confronti e si pongono così le basi per superare le logiche di dominio economico, che sinora hanno sempre prevalso nella ponderazione degli interessi in gioco. Il linguaggio dei diritti mette al riparo dalle strategie lobbiste, tarate sul breve termine, perché parla al presente in funzione del futuro. Essendo un linguaggio che supera le barriere nazionali riesce ad arginare i limiti delle politiche degli stati nazionali e si apre verso quella dimensione globale che caratterizza le questioni ambientali e climatiche, incentivando un atteggiamento cooperativo più significativo sul piano delle azioni pratiche.

Infine, l’attribuzione di diritti alla natura va valutata in relazione alle sue ricadute virtuose sul piano culturale. Attribuire diritti alla natura, specialmente laddove questo avviene attraverso modifiche costituzionali, ha un cruciale valore simbolico. Il messaggio implicito in questa operazione è che si induce un’equiparazione virtuosa, che supera i limiti della visione etica tradizionale del rapporto tra natura ed esseri umani, in quanto li pone sullo stesso piano giuridico. In particolare, si afferma il diritto della natura di accedere, seppur indirettamente, alla giustizia. Il linguaggio dei diritti, in quanto virtuosamente performativo, gioca inoltre un fondamentale ruolo nella ricerca di alternative a rimedi inadeguati, consentendo di intervenire direttamente a integrare o sostituire le azioni istituzionali che non producono gli effetti auspicati.

In forza delle considerazioni che precedono, appare chiaro che, sul piano giuridico, ci si muove, anche se in maniera ancora troppo frammentata, nella direzione di un ripensamento integrale del rapporto tra uomo e natura. Se si persegue questo obiettivo senza troppe incertezze, sarà possibile portare a compimento l’assunto sotteso alla visione originaria dello sviluppo sostenibile, ossia quel cambiamento radicale31 dello stile di vita e di produzione basati sul “consumismo ossessivo e compulsivo” (Ferrajoli 2022: 124), che sinora hanno ostacolato la sua piena realizzazione.

V. Considerazioni conclusive e alcune proposte per cambiare rotta

Molto inchiostro è stato versato dalla metà del secolo scorso ad oggi per affrontare il tema della responsabilità per l’ambiente e per il cambiamento climatico. Molti sono gli scritti di esperti di varie discipline e altrettanto numerosi gli articoli mediatici. È stato non di meno coniato un termine specifico per denotare i cambiamenti ambientali globali di natura antropogenica: Antropocene32.

Sul piano politico e giuridico a livello internazionale, l’iniziativa più rilevante resta l’elaborazione della strategia riassunta nella nozione di sviluppo sostenibile, che rappresenta la sintesi della presa di coscienza da parte della comunità internazionale della dipendenza della propria esistenza dall’ambiente fisico, chimico e biologico. Alla visione originaria dello sviluppo sostenibile hanno contribuito svariati saperi e discipline. Ognuno ha dato un contributo, le cui tracce sono rinvenibili nei vari e numerosi documenti normativi, che hanno fatto la storia dello sviluppo sostenibile.

Sul piano teorico, diversi autori hanno posto le basi per una riflessione critica sul tema delle responsabilità in tema ambientale negli anni che hanno preceduto l’elaborazione del Rapporto Bruntland.

In questo contributo, l’attenzione è stata rivolta alla teorizzazione e alla concettualizzazione della responsabilità umana da parte del filosofo Hans Jonas, il cui lavoro intitolato Il principio di responsabilità e qui preso in considerazione risale, nella sua originaria versione, al 1979. Jonas ha sicuramente offerto uno dei maggiori contributi in tema di etica della responsabilità nell’era tecnologica. Il suo imperativo rimane la chiave di lettura per la costruzione di una responsabilità volta al futuro. Riconoscendone l’orizzonte aperto, egli “avanza obiezioni alla possibilità di intervenire sui processi del vivente invocando il rispetto di un’organizzazione finalistica dei processi vitali e della natura per ragioni di ordine prudenziale” (Pollo 2012: 150).

L’imperativo di Jonas non è rimasto un inapplicato costrutto teorico. Al contrario, esso è confluito nei rapporti finali della Brandt-Commission (1980) e della Bruntland-Commission (1987), influenzando profondamente la definizione politica intergenerazionale dello sviluppo sostenibile. La forza della sua teoria è che “can force politicians to raise their eyes and think long-term, to think cross-sectional, think about the overall effects decisions and actions can have” (Berdinesen 2017: 26).

Assumendo il futuro (comparative futurology) come riferimento dell’azione morale presente, l’imperativo di Jonas può, di fatto, incentivare politiche economiche volte a risparmiare e preservare cibo, risorse e altri beni per le generazioni future, attraverso strategie di effettiva conservazione delle risorse ed equa distribuzione delle stesse. Tale imperativo può altresì indirizzare lo sviluppo tecnologico verso la sostenibilità, ad esempio, attraverso forme innovative come i c.d. engineered living materials33. Sul piano delle politiche energetiche, l’imperativo di Jonas può fungere da guida per evitare scorciatoie e concentrarsi, invece, costruttivamente su quegli strumenti che possono, nel lungo periodo, garantire l’approvvigionamento di energia, come le tecnologie rinnovabili.

Alla luce di quanto precede, possiamo sostenere che la teoria di Jonas sulla responsabilità presenta indiscutibili meriti. Tuttavia, vi sono anche delle criticità. Di seguito indicherò prima i meriti e successivamente le criticità. Tra i primi va, innanzitutto, menzionata l’accurata analisi dei limiti dell’etica tradizionale nell’affrontare le sfide inedite del potere tecnologico. Mettendo in risalto che “tutti gli imperativi e le massime dell’etica tradizionale […] mostrano tale limitazione al campo immediato dell’azione”, Jonas anticipa riflessioni che, estese al campo giuridico con i dovuti distinguo, consentono di comprendere l’insufficienza del modello penalistico della responsabilità e la conseguente necessità di elaborare una sintassi che estenda l’orizzonte della responsabilità giuridica oltre il presente. In primo luogo, la consapevolezza dell’orizzonte aperto della responsabilità ha portato –come osservato nei paragrafi che precedono– all’individuazione, in occasione della teorizzazione e concettualizzazione dello sviluppo sostenibile, di diverse tipologie di responsabilità, con cui si è cercato di rafforzare la cooperazione sul piano internazionale. In secondo luogo, in questo scenario aperto e di ripensamento di assunti tradizionali, si solleva la richiesta di superare la sinonimia tra reato e crimine per poter estendere quest’ultimo termine alla qualificazione di condotte illecite, che non rientrano negli stretti confini della qualificazione penalistica di reato.

Proprio l’orizzonte aperto della responsabilità e l’etica per il futuro esigono un cambio di paradigma anche nel contesto giuridico, dove appare opportuno poter “considerare criminali, sia pure in senso non penalistico, le tante aggressioni” all’ambiente (Ferrajoli 2022: 43). La proposta di Jonas di ripensare ed estendere categorie etiche è un lascito molto importante della sua teoria. In particolare, lo stimolo a riflettere sull’esistenza di un diritto proprio della natura va in questa direzione. Uno stimolo progressivamente accolto, proprio a livello giuridico, con l’elaborazione delle proposte sui diritti della natura, di cui si è dato conto nel presente articolo.

Un altrettanto fruttuoso incentivo alla riflessione, offerto da Jonas, proviene dalla sua considerazione che “il riconoscimento dell’ignoranza diventerà allora l’altra faccia del dovere di sapere e quindi una componente dell’etica, a cui spetta il compito di istruire il sempre più necessario autocontrollo del nostro smisurato potere” (Jonas 1979: 12).

Traspare da questa osservazione l’esigenza di puntare sull’educazione e sulla formazione dei cittadini. In tale direzione si muove l’estensione delle questioni ricomprese nel concetto di sviluppo sostenibile al tema dell’educazione –esemplificativo è l’obiettivo 4 degli SDGs. La formazione dei futuri cittadini e il loro dovere di approfondire il sapere necessario a coltivare la futura vita sulla terra rappresentano la chiave del cambiamento e si configurano come doveri di tutti. Un’educazione al pensiero critico che formi giovani e meno giovani a “pensare e fare scelte riguardo a questioni di portata nazionale e universale” (Nussbaum 2011: 45)34. Solo attraverso un adeguato processo educativo, che deve coinvolgere tutti gli attori in gioco, è possibile sperare che il dovere verso l’esistenza sia scelto come priorità. Non si tratta come sostiene Jonas di un dovere categorico, fondato su assunti ontologico-metafisici. Nell’attuale dimensione sociale, improntata all’autodeterminazione individuale, sono destinati a fallire i tentativi di imporre doveri oggettivi e assoluti. L’individuo, che ha reclamato storicamente la responsabilità35 delle sue azioni derivanti da scelte autonome e consapevoli, difficilmente aderisce a una siffatta prospettiva. Il dovere verso l’esistenza potrà auspicabilmente tradursi in comportamenti pratici solo se è introiettato come modello di comportamento meritevole di essere seguito e non eteroimposto. In altre parole, il dovere verso l’esistenza diviene vincolante perché decidiamo di sceglierlo come valore a cui ispirare la nostra etica e da cui trarre ispirazione per il nostro agire etico nel presente.

Siamo giunti così alla prima criticità del pensiero di Jonas, ossia il fondamento ontologico del suo imperativo. Di seguito vogliamo aggiungere qualche altra riflessione critica relativamente a un paio di altri aspetti. Un’ulteriore criticità della teoria di Jonas riguarda l’euristica della paura o timore. Jonas ritiene che la motivazione psicologica per ottenere l’adempimento del dovere espresso dall’imperativo da lui formulato sia la paura dello scenario peggiore, ossia il “non esistere”. Certamente la paura è un fattore emotivo chiave nel promuovere atteggiamenti preventivi. Tuttavia, nello specifico scenario di responsabilità a orizzonte aperto in cui ci troviamo, la paura potrebbe non essere così determinante sull’agire per il futuro. Ciò è dovuto a diversi motivi. Intanto, la percezione del rischio individuale varia molto da individuo a individuo e con esso il livello psicologico della paura. Inoltre, la paura funziona come stimolante quando si è sotto pressione, mentre non si può mantenere uno stato di timore per un lungo tempo, soprattutto se gli esiti sono destinati a realizzarsi in tempi lontani. È vero che Jonas teorizza la paura come un timore di genere intellettuale e non come un “timore di tipo ‘patologico’ che ci assale incontrollatamente dinanzi al suo oggetto” (Jonas 1979: 36). Detto diversamente, si tratterebbe di un timore, inteso come attitudine acquisita con un esercizio quotidiano di riflessione sull’esito più nefasto che l’agire umano è in grado di determinare.

A smentire il ruolo centrale di questo timore è però il tempo trascorso dal 1972 ad oggi. Quello che è, o meglio non è, successo in questo lasso temporale dimostra che il timore di quello che sarebbe potuto accadere negli anni successivi a quella data –scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei livelli del mare, eventi climatici estremi, perdita di biodiversità ecc.– e ribadito con grande enfasi dal 1992 in poi, non ha rappresentato un deterrente sufficientemente forte36, forse perché non introiettato al punto tale da considerarlo, a livello globale, un criterio guida per determinare il cambio di paradigma auspicato con l’adozione della strategia dello sviluppo sostenibile. La difficoltà di assumere come dovere di comportamento il timore intellettuale per il “non essere” nel futuro è dipeso non da fattori principalmente imputabili all’uomo della strada, ma dall’atteggiamento di chi detiene il potere istituzionale e informativo. Ci si riferisce in particolar modo alla diffusione di notizie contrastanti sulla reale origine dei cambiamenti climatici attuali, spesso e volentieri paragonati ad altri eventi naturali simili accaduti in passato. Un argomento usato con forza dai detrattori dell’Antropocene, che hanno rivestito cariche e ruoli centrali nella politica globale degli ultimi decenni. La disinformazione in tale materia ha creato le condizioni per giustificare, da parte di chi aveva interessi economici o semplicemente egoistici, il persistere dello stile di vita causa del disastro attuale. In siffatto scenario, è andato in buona parte perso il nucleo dell’imperativo di Jonas, che esige un costante (cotidie) sguardo rivolto agli esiti futuri delle nostre azioni.

Sebbene chi scrive non condivida gli assunti fondanti –ontologico-metafisici– dell’imperativo di Jonas, ritiene tuttavia che il suo contenuto vada preservato e riproposto con forza sul piano politico e culturale. Prescindendo dagli assunti metafisici, l’imperativo di Jonas diviene frutto di una scelta etica a cui consegue la responsabilità per le decisioni prese, in particolare per i passi politici e giuridici a favore della costruzione dell’imminente futuro. Non un futuro tanto lontano, perché è lo stesso futuro a noi relativamente vicino ad essere ormai a rischio di non vedere la luce.

Per limitare tale rischio, i beni comuni, intesi come beni fondamentali, devono diventare parte integrante della coscienza di ogni individuo.

Bisogna formare le persone a un motto diverso da quello secondo cui ‘produrre crescita economica significa produrre sempre e comunque benessere’. Bisogna sradicare dal sentire comune il vecchio paradigma del benessere, per entrare in una dimensione più articolata degli scopi che la società deve e può perseguire, anche, laddove necessario, con un rallentamento di alcune attività che, ad esempio, producono beni non essenziali.

Sul piano individuale, questo obiettivo richiede investimenti importanti nell’educazione di materie umanistiche, integrate nel percorso di studi delle materie scientifiche. Si tratta di operare in controtendenza con quanto sta avvenendo negli ultimi anni nei corsi di studio a livello globale, dove è il sapere tecnico a prevalere, se non addirittura a sostituire, quello umanistico.

Sul piano delle comunità locali, necessitano investimenti per supportare approcci che facilitino un pensiero di lungo termine per quello che riguarda la gestione delle risorse naturali locali. La consapevolezza, che quanto accade localmente ha ricadute su ampia scala, deve tradursi in strumenti giuridici che guardano non solo alla questione tecnica –ad esempio le valutazioni di impatto ambientale–, ma che integrino contenuti vincolanti su modalità alternative di urbanizzazione del territorio, ispirati da valori etici come il rispetto dell’eguale interesse della vita non umana.

Sul piano dei rapporti tra gli stati, bisogna tornare alle radici dello sviluppo sostenibile come strategia di cooperazione –quella che il Global Report of the United Nations Conference on Environment and Development (1992)37 definì global partnership for sustainable development.

Per la sua realizzazione questa partnership richiede che vi siano alcune condizioni minime, che purtroppo nell’attuale momento storico mancano. La prima condizione è la pace, oggigiorno minata dalla guerra alle porte dell’Europa, che oltre alla tragedia umana, implica anche quella ambientale. La violazione dei diritti delle persone è aggravata dall’assalto ai beni fondamentali, che, a loro volta, sono indispensabili perché possano esistere persone a cui attribuire diritti –un circolo vizioso da cui si rischia di non uscire se non vi sarà la volontà forte di farlo.

La seconda condizione è che gli attori politici dismettano gli atteggiamenti egoistici e interessati per restituire alla politica il ruolo nobile di scienza più importante e più architettonica. In tale virtuoso significato la politica è “una scienza cui spetta di cercare quale sia la migliore costituzione: quale più di ogni altra sia adatta a soddisfare i nostri ideali, quando non vi fossero impedimenti esterni; e quale si adatti alle diverse condizioni in cui può essere messa in pratica” (Aristotele 1972, IV, 1: 1288 b 21).

La terza condizione è che, una volta investiti di questo nobile ruolo, i rappresentanti politici si impegnino per realizzare programmi politici che devono avere come priorità la questione ambientale e climatica quale elemento riconciliante tutte le altre questioni politicamente e socialmente rilevanti, richiamando l’assunto valoriale espresso dall’imperativo di Jonas, ossia agire senza mai mettere in pericolo l’esistenza futura. Per la realizzazione di tale imperativo dovranno accordarsi per la definizione di obblighi vincolanti per tutti gli stati e garantiti tramite sanzioni per i non adempienti attraverso la costituzione di un organismo internazionale che si faccia carico del rispetto delle regole pattuite. La gestione del disastro climatico a livello globale è, per molti versi, il problema più ostico. Bisogna puntare a elevare gli standard morali dal basso perché a livello globale si possa pensare a una struttura democraticamente orientata con cui affrontare le sfide ambientali. Possiamo già contare su dimensioni istituzionali, che seppur hanno mostrato molti limiti, rimangono –come osserva Ferrajoli– il lascito più prezioso del secolo passato (2022: 77). Ci si riferisce al patto di convivenza pacifica rappresentato e supportato dall’ONU e dalle istituzioni ad esso correlate.

La realizzazione delle condizioni minime sopra richiamate esige un atteggiamento condiviso favorevole a tenere fermi alcuni principi, portandoli a dovuto compimento e non lasciandoli sulla carta, come quello di precauzione, di cooperazione e di integrazione, interpretandoli il più possibile in favore dei beni fondamentali e non delle dinamiche economiche. Solo così si potranno realizzare anche gli obiettivi correlati alla tutela dei diritti fondamentali, inducendo quel cambio di rotta, volto a rovesciare le dinamiche distruttive di un progresso economico e tecnologico senza alcun limite. Un cambio di rotta auspicato ormai più di tre decenni addietro, ma mai completamente attuato.

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Note

1 Il Rapporto fu elaborato dalla World Commission on Environment and Development delle Nazioni Unite. Nel Rapporto, lo sviluppo sostenibile viene definito come quello sviluppo “che garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”; il testo è reperibile al seguente link https://www.are.admin.ch/are/it/home/media-e-pubblicazioni/pubblicazioni/sviluppo-sostenibile/brundtland-report.html

2 Il principio di integrazione è il principio procedurale più importante per l’attuazione dello sviluppo sostenibile. Nel documento redatto dall’International Law Association nel 2006, in occasione della Conferenza di Toronto, intitolato International Law on Sustainable Development è chiaramente sostenuto che “sustainable development will only be realized when the principle of integration is properly –and fully– implemented”. Ma già in precedenza, la stessa Dichiarazione della Conferenza di Stoccolma del 1972 su Ambiente Umano prevede, ai principi 13 e 14, che gli stati debbano adottare un approccio integrato e coordinato per la programmazione dello sviluppo.

3 Il termine compare già nella Dichiarazione elaborata alla Conferenza di Stoccolma del 1972 in cui si sostiene che la pianificazione razionale dello sviluppo rappresenta “an essential tool for reconciling any conflict” tra lo sviluppo economico e la protezione ambientale. Simili affermazioni sono contenute nei documenti che seguono negli anni, inclusa la World Charter for Nature del 1982 e le successive dichiarazioni di Rio e Johannesburg, nonché nell’Agenda 21 che dedica al tema dell’integrazione l’intero capitolo ottavo.

4 Per Hardin il problema tecnico è quello che “requires a change only in the techniques of the natural sciences, demanding little or nothing in the way of change in human values or ideas of morality” (Hardin 1968: 1243).

5 Il testo è reperibile al seguente link https://www.eesc.europa.eu/en/our-work/publications-other-work/publications/towards-eu-charter-fundamental-rights-nature

6 Jonas ritiene che il primo dovere dell’etica del futuro sia cercare l’acquisizione degli effetti a lungo termine: “Il malum immaginato dovrà allora assumere il ruolo del malum esperito e questa prefigurazione non si presenta da sé, ma la si dovrà elaborare intenzionalmente: l’acquisizione anticipata dal pensiero di quell’idea diventa quindi il primo dovere, per così dire propedeutico, della nostra etica” (Jonas 1979: 36).

7 Mi riferirò alla responsabilità di cui si è parlato per secoli come responsabilità tradizionale per distinguerla dalla responsabilità correlata all’eccedenza dell’agire umano, realizzatasi grazie allo sviluppo tecnologico.

8 I concetti come responsabilità, libertà, eguaglianza possono avere una funzione descrittiva, se con ciò si intende dire che nelle società in cui sono applicati è possibile osservare, dalle configurazioni delle relazioni che si instaurano fra i consociati, caratteristiche che distinguono una società dall’altra in base al modo di operare di categorie a seconda di come sono state definite. In altre parole, un certo modo di definire tali concetti ricade sulle relazioni sociali la cui esteriorizzazione è osservabile empiricamente (Scarpelli 1982: 159).

9 La categoria della responsabilità, che ha conosciuto diverse declinazioni nei vari momenti storici in cui è stata utilizzata, ha affrontato nel tempo importanti momenti critici. Ogniqualvolta, infatti, nuovi avanzamenti scientifici –oggigiorno è il turno delle neuroscienze– mettono potenzialmente in dubbio la libertà dell’agire umano, si deve affrontare il problema dell’esistenza o meno di atti volontari e stabilire i limiti della responsabilità soggettiva. La crisi della responsabilità tradizionalmente intesa affonda le sue radici nella “crisi di una visione dell’uomo […] contrassegnato, nell’ordine necessario della natura, dal segno eccezionale della libertà” (Scarpelli 1982a: 95). Insomma, una crisi che chiama in causa l’antico dilemma relativo alla possibilità di riconoscere in capo all’essere umano la libertà di agire come soggetto morale.

10 Ad esempio, usare l’acqua potabile per riempire le piscine in periodi di grande siccità si configura come una condotta moralmente riprovevole e, in certe circostanze, anche giuridicamente perseguibile. Ciò che muta la fisionomia morale e giuridica di certe condotte nei confronti dei Commons (nel senso di beni naturali comuni) è il passaggio dalla loro disponibilità naturale alla loro scarsità determinato dall’agire umano. Proprio l’indotta scarsità porta spesso alla loro trasformazione in “merce gettata sul mercato” (Ferrajoli 2022: 118).

11 In questo scenario, Jonas (1979: 24) sostiene la necessità di un’etica della previsione e della responsabilità proporzionale al nuovo potere umano.

12 “[…] the traditional scientific image of man versus nature as a relation of control still prevails in the attitude adopted by existing research and technology, since these enterprises are predominantly financed by industry and supported by the citizens’ and politicians’interest in economic growth” (Wolsing 2013: 4). Anche Rachel Carson evidenzia che “The ‘control of nature’ is a phrase conceived in arrogance, born of the Neanderthal age of biology and philosophy, when it was supposed that nature exists for the convenience of man. The concepts and practices of applied entomology for the most part date from that Stone Age of science” (Carson 1962: 257).

13 La stessa Chiesa cattolica ha rivisto radicalmente la propria posizione in merito. Nella lettera enciclica del 2015 Laudato si’. Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Papa Francesco (2015) riconosce esplicitamente il dovere di tutelare e garantire la continuità della natura per le generazioni future e il dovere di prendersi cura della natura (§ 22). Allo stesso tempo richiama il limite del potere umano nel far soffrire inutilmente e indiscriminatamente gli animali (§ 130).

14 A lungo si è protratto il dibattito filosofico-giuridico sulla responsabilità, in particolare penale, degli enti per danni da loro causati. Il punto di svolta è stato il superamento del dualismo tradizionale tra persona fisica e persona giuridica di cui tra i principali artefici ricordiamo Hans Kelsen (1952).

15 In realtà tale nozione era stata formulata in merito alla sostenibilità forestale da Hans von Carlowitz (1713).

16 Accessibili a questo link https://www.un.org/millenniumgoals/

17 Il principio 4 della Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo prevede che “al fine di pervenire a uno sviluppo sostenibile, la tutela dell’ambiente costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere considerata separatamente da questo”. Nel 2003 è entrato in vigore il Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza, che ha cercato di regolare gli aspetti ambientali dando rilevanza alla diversità biologica per le comunità locali e le popolazioni indigene (Cordonier Segger et al. 2013). Il Protocollo è stato inserito dalla dottrina internazionale tra i regimi altamente integrati (highly integrated new regimes) ed è considerato un buon esempio di attuazione del principio di integrazione come via per realizzare lo sviluppo sostenibile (Cordonier Segger, Khalfan 2004).

18 Si tratta della Resolution 3/2002, Sustainable Development, New Delhi Declaration of Principles of International Law relating to Sustainable Development, accessibile a questo link https://www.ila-hq.org/en_GB/documents/conference-resolution-english-newdelhi-2002-3

19 Si tratta dei seguenti sette principi: 1) l’obbligo degli Stati di assicurare un uso sostenibile delle risorse naturali; 2) il principio di equità e abolizione della povertà; 3) il principio della responsabilità comune ma differenziata; 4) il principio di precauzione da applicarsi nei confronti della salute umana, delle risorse naturali e degli ecosistemi; 5) il principio di partecipazione e accesso all’informazione e alla giustizia; 6) il principio di good governance; 7) il principio di integrazione e interrelazione, in particolare in relazione ai diritti umani e agli obiettivi sociali, economici e ambientali.

20 Il quadro di principi qui richiamati si inserisce in una cornice più ampia di principi a livello internazionale posti a tutela dell’ambiente. Tra questi principi generali del diritto internazionale richiamiamo il principio di azione preventiva, il principio di cooperazione, il principio chi inquina paga, il principio della sovranità permanente sulle proprie ricchezze e il correlato diritto di sfruttamento delle proprie risorse naturali da cui deriva l’obbligo di non causare danno ad altri stati.

21 Il principio origina nel diritto tedesco, Vorsorgeprinzip, negli anni Settanta del secolo scorso. Nel contesto internazionale viene menzionato per la prima volta nel 1985 nella Convenzione di Vienna per la protezione dello strato di ozono. Per un approfondimento sulla questione definitoria si veda il testo elaborato dall’European Parliamentary Research Service (2015) reperibile a questo link https://www.europarl.europa.eu/thinktank/en/document/EPRS_IDA(2015)573876

22 Questa sostituzione appare evidente nella bozza di Regolamento europeo sull’Intelligenza Artificiale di aprile 2021 dove il principio di precauzione non è affatto richiamato.

23 L’autore ha distinto la categoria di beni fondamentali in personalissimi (come le parti vitali del corpo umano), comuni (come sono i beni vitali naturali, dal clima all’ambiente, dall’acqua potabile alle grandi foreste e ai grandi ghiacciai) e sociali (come i vaccini e farmaci salva-vita) (Ferrajoli 2022: 115).

24 Europa e Stati Uniti hanno diverse loro regioni in fiamme. Vengono distrutti dalla siccità di questa estate ettari ed ettari di boschi e foreste. In diverse regioni italiane vi è scarsità di acqua potabile, con fiumi in secca e ghiacciai ormai erosi dallo scioglimento. Si assiste impotenti a eventi climatici estremi che distruggono interi paesi e città.

25 Nell’articolo dal titolo L’Antropocene negato si fa il punto sulle ragioni che spingono gli esseri umani a rimanere ancorati alla filosofia del ‘qui e ora’ e del perché faticano ad accettare la responsabilità del cambiamento climatico (Moraca, 2019).

26 Come osserva l’European Economic and Social Committee “despite legislation, adopted, implemented and enforced through the regulatory and deregulatory trends, the quality of environment, both at the global as well as at the local scale, has shown progressive deterioration, both at the global level as well as in the EU” (European Economic and Social Committee 2019: 22).

27 Si pensi alla Scuola del diritto libero o alla Giurisprudenza degli interessi che fecero emergere la vaghezza, l’incoerenza e le lacune del diritto, oltre a mettere in luce l’esistenza di altre fonti del diritto e la necessità di una certa discrezionalità per i giudici nella decisione delle controversie.

28 Si ricordano le parole del giurista Salmond “A legal person is any subject-matter to which the law attributes a merely legal or fictious personality. This extension, for good and sufficient reasons, of the conception of personality beyond the limits of fact – this recognition of persons who are not men – is one of the most noteworthy feats of the legal imagination” (Salmond 1913: 279).

29 Ecuador e Bolivia sono stati i primi paesi a riconoscere i diritti inalienabili della natura con emendamenti costituzionali. Altri stati coinvolti nel processo di riconoscimento di diritti alla natura e della personalità giuridica sono Mexico, New Zealand, Colombia, India, Bangladesh, Uganda, California e Colorado. Sono stati riconosciuti diritti a fiumi, ecosistemi, montagne o alla natura in generale. Per un commento su tali modifiche cfr. Baldin, 2014; Salardi, 2021; Salardi, 2022. Tra le decisioni giurisprudenziali più rilevanti in materia si ricordano: 2011 Ecuadorian case Wheeler c. Director de la Procaduría General del Estado de Loja, Juicio No. 11121-2011-0010; The Nonhuman Rights Project v. Stanley, Supreme Court of the State of New York, New York County, Decision and Order, Intex. No. 152736/15, July 29, 2015, 18 ff.; 2016 Colombia’s Tribunal Constitucional Decision T-622/ 2016 The Aratro River as a ‘subject of rights’; 2017 High Court of Uttarkhand at Nainital, decision Mohd. Salim v. State of Uttarkhand and Others. Writ Petition (PIL) No. 126/2014, March 20, 2017, seguita da una seconda decisione in cui si riconosce che fiumi, ghiacciai, foreste dell’Himalaya sono persone giuridiche, Lalit Miglani v. State of Uttarakhand and Others. Writ Petition (PIL) No. 140 of 2015, March 30, 2017. Recente è l’iniziativa parlamentare svizzera (2021) di attribuire diritti alla natura sulla base della seguente giustificazione ““Die intensive Nutzung der natürlichen Ressourcen setzt die Natur zunehmend unter Druck. Der Rückgang der Biodiversität und der Klimawandel sind Ausdruck des fehlenden Gleichgewichts zwischen Menschen und Natur. Als Teil der natürlichen Umwelt ist der Mensch direkt durch die Umweltkrise betroffen: Durch die Verknappung der Ressourcen, durch die zunehmenden Umweltbelastungen und die Folgen der Klimaerhitzung. Darum hat die Generalversammlung der Vereinten Nationen am 21. Dezember 2020 die Resolution 75/220 ‘Harmony with Nature’ verabschiedet. In der Schweiz braucht es neue Verfassungsgrundlagen. Das Recht auf eine gesunde Umwelt soll zu einem einklagbaren Grundrecht aller Menschen werden. Und der Natur, verstanden als einheitliches Ökosystem, ist mindestens partiell der Status eines Rechtssubjekts. zu geben. Bei der Detailausarbeitung ist mitunter zu klären, wer berechtigt ist, die gesetzliche Vertretung der Natur zu übernehmen” (https://www.parlament.ch/de/ratsbetrieb/suche-curia-vista/geschaeft?AffairId=20210436).”

30 Testo accessibile a questo link https://ecode360.com/30168507.

31 Wood l’ha definita una “massive departure from business as usual” (Wood 2006: 266).

32 Termine proposto nel 2000 da Paul Cruzen ed Eugene Stoermer per denotare l’attuale arco temporale in cui molti processi geologicamente significativi e le loro condizioni sono profondamente alterati dalle attività umane (Gibbard et al. 2019: 29).

33 Per un approfondimento, Editorial, 2022: “Materials come alive”. Nature Materials, n. 21, p. 379.

34 Si muove in questa direzione l’articolo 27 (diritto all’istruzione) del progetto di Costituzione della Terra, che al terzo comma recita “L’istruzione […] è finalizzata alla promozione del libero sviluppo della personalità e all’educazione al rispetto dei principi della pace, della dignità e dell’eguaglianza delle persone, dei loro diritti fondamentali e dei beni comuni”. Si tratta di un progetto scritto da Luigi Ferrajoli su invito del Comitato esecutivo della Scuola “Costituente Terra” (Ferrajoli 2022: 139).

35 Si ricordi che vi sono state epoche storiche in cui la responsabilità era eterodiretta da forze esterne all’individuo. Nel mondo omerico, ad esempio, manca completamente il concetto di libero arbitrio, che si radicherà nella storia del pensiero durante l’epoca cristiana, ciononostante l’eroe omerico, Ulisse, ne precorre i contenuti. Egli rappresenta, di fatto, l’antesignano di quell’individuo, che faticosamente conquista, attraverso un lento processo di autoconsapevolezza la propria autodeterminazione e, che, nei secoli successivi, reclamerà la colpevolezza come base della sua responsabilità (Cantarella 2010).

36 L’obiezione a Jonas su questo punto è mossa anche da Mantatov e Mantatova (2015: 1060), quando sostengono che “we suppose that the “heuristic of fear” is not sufficient for the reversal of the pre-apocalypse situation. It is necessary to provide modern industrial civilization with a new vector of development”.

37 Accessibile a questo link https://digitallibrary.un.org/record/168679