Kelsen giurista e teorico del diritto: una controversa attualità
Hans Kelsen como jurista y teórico del derecho: una actualidad controvertida
Hans Kelsen as Jurist and Legal Philosopher: a Present, Controversial Affair
Kelsen giurista e teorico del diritto: una controversa attualità
Isonomía. Revista de Teoría y Filosofía del Derecho, no. 59, 2023, pp. 141 -157
Ricevuto: 03 March 2023
Accettato: 14 July 2023
Riassunto: Protagonista delle più celebri contrapposizioni di principio della dottrina dello Stato della prima metà del Novecento, Hans Kelsen si consolida già tra gli anni Venti e Trenta come un giurista universale. È al centro del dibattito politico e teorico che fonda nel primo dopoguerra le radici dello Stato costituzionale. Ne segue poi, un decennio più tardi, la crisi, confrontandosi in particolare con il drammatico percorso tedesco di affermazione del totalitarismo. Le critiche nei confronti del suo impianto teorico restano accese in Europa anche nel secondo dopoguerra; non facile la sua penetrazione in terra americana, dopo il suo arrivo nel 1940. Le grandi opere di questo periodo, dalla General Theory alla seconda edizione della Dottrina pura, lo confermano comunque come un imprescindibile punto di riferimento per ogni riflessione di teoria generale. Solo sul finire del Novecento sorgono i primi interrogativi sulla sua attualità, ripercorsi nel saggio con particolare riferimento al contesto italiano, in cui Kelsen continua a conoscere una presenza ampia e capillare. Iniziano così le prese di distanza dal suo pensiero, ritenuto lontano dal pluralismo del presente e dal paradigma dei diritti, affermatosi con il costituzionalismo del secondo dopoguerra. Mentre appaiono ancora di grande attualità sia la sua lettura critica dei presupposti del diritto pubblico costruiti dalla scienza giuridica ottocentesca, sia la sua teoria della democrazia.
Parole chiave: Hans Kelsen, positivismo giuridico, realismo giuridico, monismo giuridico, pluralismo giuridico, Stato di diritto, Stato costituzionale.
Resumen: Para las décadas del ’20 y el ’30 del siglo pasado, Hans Kelsen era ya un jurista universal, conocido por sus famosas contraposiciones de principio respecto de la teoría del Estado. En la Primera Posguerra, Kelsen se encuentra al centro del debate político y teórico sobre las raíces del Estado Constitucional. Una década más tarde, es testigo de la crisis del Estado Constitucional, particularmente en relación con la dramática emergencia del totalitarismo en Alemania. A pesar incluso de las fuertes críticas que su propuesta teórica recibe en su más familiar contexto europeo, y luego en EE.UU. tras su llegada allí en 1940, las grandes obras de Kelsen, desde la Teoría General a la segunda edición de la Teoría pura del derecho, lo encumbran como un punto de referencia esencial para cualquier reflexión teórico-general. Recién sobre finales del siglo XX comienzan a formularse objeciones sobre la relevancia de las elaboraciones teóricas de Kelsen, tal como se describe en el presente texto con particular referencia al contexto italiano, en el que los trabajos de Kelsen tienen aún una extendida presencia. Hay quienes comienzan a distanciarse de su pensamiento, al considerarlo demasiado lejano del pluralismo de nuestros días y del paradigma de los derechos individuales tal como surge a partir del constitucionalismo de la Segunda Posguerra. Sin embargo, tanto la lectura crítica kelseniana de la decimonónica ciencia jurídica del derecho público como su teoría de la democracia se presentan todavía hoy como altamente relevantes.
Palabras clave: Hans Kelsen, positivismo jurídico, realismo jurídico, monismo jurídico, pluralismo jurídico, Estado de Derecho, Estado Constitucional.
Abstract: Between the 1920s and 1930s, Hans Kelsen is already a universal jurist, known for his famous principled contrasts in the doctrine of the State. At that time, at the end of World War I, Kelsen is at the center of the political and theoretical debate on the roots of the constitutional State. Then, a decade later, he witnesses the crisis of the constitutional State, particularly regarding the dramatic emergence of totalitarianism in Germany. Even when his theoretical framework faces strong criticism at home in Europe, and then in the U.S. after his arrival in 1940, Kelsen’s great works of this period, from the General Theory to the second edition of the Pure Theory of Law, establish him as an essential reference point for any reflection on general theory. Only in the late twentieth century do questions begin to be raised about the relevance of Kelsen’s theories, as described here with particular reference to the Italian context, where Kelsen’s works continue to have a widespread presence. Some begin to distance themselves from his thought, considered too far removed from the pluralism of the present and from the paradigm of individual rights, borne out of post-World War II constitutionalism. However, both Kelsen’s critical reading of nineteenth-century’s legal science of public law and his theory of democracy still appear highly relevant today.
Keywords: Hans Kelsen, legal positivism, legal realism, legal monism, legal pluralism, rule of law, constitutional state.
I. Contrapposizioni di principio
Quella di Hans Kelsen, nato a Praga nel 1881 e scomparso a Berkeley nel 1973, è una biografia esemplare di un ‘lungo Novecento’, scandita dalle grandi vicende della storia politica; animata da una bibliografia sterminata, in grado di spaziare dalla teoria generale al diritto costituzionale e amministrativo, dalla teoria della democrazia al diritto internazionale; segnata da prestigiosi ruoli istituzionali, rilevanti successi accademici, grandi collaborazioni internazionali, culminati in una straordinaria diffusione del suo pensiero.
E segnata anche da virulente contrapposizioni, scoppiate particolarmente veementi all’indomani della pubblicazione della sua Allgemeine Staatslehre nel 1925 e che vedono allineati, in una ‘santa’ alleanza contro i “punti morti” della Scuola di Vienna, personaggi diversissimi per impostazione teorica e ideologia. Da Hermann Heller, che in Kelsen individua il vero erede del Labandismus e lo stesso personificarsi della “crisi” di una Staatslehre che con la “degenerazione” finale del concetto di sovranità rischia di perdere il suo stesso oggetto, divenendo una “dottrina dello Stato senza Stato ed una scienza giuridica senza diritto” (Heller, 1926, p. 52). A Rudolf Smend, che in quel volume legge “il punto zero” di una disciplina che, proseguendo la direttrice inaugurata da Georg Jellinek all’inizio del secolo, sta imboccando ormai “un vicolo cieco senza scopo e fine” (Smend, 1928, pp. 62-63), cui Kelsen replicherà, com’è noto, con uno scritto apposito (Kelsen, 1930)1. Per arrivare alla contrapposizione frontale con Carl Schmitt nata già negli anni Dieci del Novecento nell’alternativa teorica tra decisione e norma e proseguita ininterrotta tra le due guerre con il dibattito sul parlamentarismo, ‘il custode della Costituzione’, lo Stato totale, sino al drammatico passaggio da Weimar a Hitler, secondo scansioni dialogiche da quel momento in avanti riprese e ridiscusse sino ad oggi da una sterminata bibliografia2.
Le critiche sono accese anche in Italia. Intanto, basta scorrere il rigoroso apparato di note de L’ordinamento giuridico di Santi Romano per verificare l’attenzione già forte, nel bel mezzo degli anni di guerra, ai suoi primi scritti, dagli Hauptprobleme (Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico) del 1911, cui va l’onore della prima citazione del testo romaniano, a Über Staatsunrecht e Zur Lehre vom öffentlichen Rechtsgeschäft del 1913, cui si aggiungono, nella seconda edizione del 1946, Il problema della sovranità e l’Allgemeine Staatslehre: scritti, spesso avvicinati ai “singolari lavori” di Léon Duguit, di cui si critica la riduzione del fenomeno giuridico al rigido normativismo della “regola di condotta” e l’identificazione tra Stato e diritto (Romano, 1946, p. 4).
Nel primo dopoguerra si dovrà in particolare a Giorgio Del Vecchio lo stringersi di un fitto rapporto epistolare con Kelsen, intensificatosi nel momento dell’allontanamento del giurista austriaco da Colonia nel 1932, cui il fascista Del Vecchio non fece mancare il suo appoggio, favorendo in ogni modo la pubblicazione sull’Archivio giuridico del 1933 del saggio La dottrina pura del diritto. Metodo e concetti fondamentali, “sostanziosa anticipazione” della prima edizione della Reine Rechtslehre dell’anno seguente, la cui traduzione italiana fu affidata a Renato Treves3.
Ma il quadro generale è sostanzialmente avverso. Si dipana all’insegna del più rigido statualismo la critica dei giuristi del corporativismo, cui per altro spetta, nel 1929, sui Nuovi studi di diritto, economia e politica, schieratissimo foglio diretto da Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli, il merito della prima traduzione de Il problema del parlamentarismo, così come dei Lineamenti di una teoria generale dello Stato. Così, da una parte, Kelsen appare il teorico di un “vacuo formalismo” e di una “ideologia democraticoparlamentare rimasta sempre più chiusa e soffocata nei termini astrattamente politicoindividualistici della Rivoluzione francese”, che il corporativismo ha battuto in breccia, realizzando una ben più efficace rappresentanza degli interessi organizzati e quindi una “vera e compiuta democrazia” che assicura la “coincidenza assoluta tra la volontà dello Stato e quella degli individui” (Volpicelli, 1929, pp. 253 e ss.; Volpicelli 1930, pp. 15 e 20). Dall’altra, Kelsen, non diversamente da Léon Duguit, appartiene al novero degli “atei dello Stato”, reo di aver dissolto nell’ordinamento giuridico la realtà dello Stato “in un assoluto vuoto logico dal quale sia stato espulso … ogni fermento di vita”, distruggendo così il più solido pilastro della tradizione (Maggiore, 1940, pp. 62 e 58)4.
Ma sono possibili anche letture critiche di taglio diverso, come quella di Costantino Mortati che ne La costituzione in senso materiale del 1940 mette a punto una serrata critica alla Grundnorm, ricercando, in diametrale contrasto con la soluzione kelseniana di una norma “presupposta” da cui far scaturire la validità dell’ordine giuridico, un principio materiale, su cui – grazie alla forza politica dominante che lo esprime – si possa poggiare il principio primo dell’ordinamento (Mortati, 1940, pp. 22 e ss.)5. La soluzione prescelta si pone in modo esattamente speculare a quella del giurista austriaco. Là la norma fondamentale ha carattere logico-formale, prescinde da “ogni ricerca del soggetto di essa”, ha come obiettivo peculiare quello di costruire una “concezione impersonale dell’ordinamento in cui la sovranità è della norma e non degli individui”. In Mortati, invece, ferma la identità esclusivamente giuridica dello Stato, è indispensabile ricostruire altrove un fondamento materiale, indagare in rebus, tra “costituzione reale” e “costituzione giuridica”, tra Sein e Sollen, “il fondamento primo di un concreto ordine giuridico”, “il principio primo dell’organizzazione statale”, scoprendo e identificando il “soggetto da cui emana” (Mortati, 1940, pp. 11-12).
II. Un giurista universale
Le critiche come si vede sono accese, ma è ancora evidente l’attualità di un Kelsen che nel giugno 1940 arriva negli Stati Uniti, inizia a insegnare a Harvard, riceve la laurea honoris causa dell’Università di Chicago nel settembre 1941; si sposta infine a Berkeley nel settembre 1942; riceve la cittadinanza americana nel giugno 1945.
Il panorama è completamente mutato: “dalla ampia finestra accanto al mio scrittoio vedo, di là dal giardino, la Baia di San Francisco e il Golden Gate dietro il quale risplende l’Oceano Pacifico”. E, citando Heine, confesserà: proprio qui “l’affaticato viandante” troverà “l’ultimo riposo” (Kelsen, 1947, p. 138).
Lo sforzo è enorme e non solo per il destino di vita. Kelsen ha abbandonato Ginevra, suo ultimo rifugio in terra d’Europa, ed è uscito definitivamente dal recinto continentale e dalle convulsioni del costituzionalismo mitteleuropeo, travolto dal fallimento dei modelli democratici del primo dopoguerra e dall’avvento del totalitarismo.
Si butta a capofitto nel nuovo ordine mondiale che gli ultimi mesi di guerra hanno iniziato a prefigurare. S’impegna a rendere comprensibile al giurista di common law una produzione scientifica che ha sì già ampiamente messo a punto, nel 1934, nella prima edizione della Reine Rechtslehre, il lessico e l’argomentare universalizzanti della teoria generale, ma che per il grande segmento degli studi di diritto pubblico segue ancora il modello, tutto germanico, della Allgemeine Staatslehre.
La General Theory of Law and State, nel 1945; The Law of the United Nations. A Critical Analysis of its Fundamental Problems nel 1950. Infine, la seconda edizione della Reine Rechtslehre nel 1960 ne saranno la testimonianza tangibile.
Ma nonostante si stia aprendo una stagione biografica che vedrà Kelsen trascorrere un buon terzo della vita negli Stati Uniti, “he remained in many ways a European” e la sua effettiva penetrazione in terra americana, anche in ambito internazionalistico, sarà ostacolata dalla prevalente opzione realistica della scienza giuridica di oltreoceano, venendo così a limitare il suo impatto effettivo al campo di grande rilevanza, ma comunque circoscritto rispetto al raggio a tutto tondo degli studi kelseniani, del sindacato di costituzionalità delle leggi (Herzog, 1993, pp. 208-212).
Kelsen è comunque ormai un giurista universale. Notevolissima la circolazione delle sue opere, resa ora più facile da una bibliografia di grande rilievo direttamente pensata in inglese, da cui risulta al momento ancora esclusa solo la grande dorsale di studi, dagli Hauptprobleme alla Allgemeine Staatslehre, rimasta legata sino a tempi recenti alla penetrazione della letteratura di lingua tedesca.
Questo non significa però anche una facile sedimentazione delle sue fortune europee. Così in Francia, dove Kelsen, già presente tra le due guerre per la codirezione con Léon Duguit e František Weyr della Revue internationale de la théorie du droit, conosce negli anni seguenti una rilevante diffusione dell’insegnamento grazie all’opera e all’impegno di Charles Eisenmann, con esiti importanti di teoria generale, ma senza mai coinvolgere in profondità discipline pubblicistiche poco propense a far spazio ad autori non nazionali (Herrera, 2004, pp. 10-11).
Così in Germania, dove il peso delle posizioni del Methodenstreit weimariano, da destra come da sinistra, finiscono per delimitare un argine di sicurezza nei confronti del pensiero kelseniano, mai in grado – nonostante le frequenti riprese di interesse, gli isolati proseliti, le operazioni editoriali anche di grande rilievo come l’Hans Kelsen Werke, che hanno fatto parlare in passato e continuano a far parlare oggi di una Kelsen-Renaissance6 –, di mettere a frutto un sicuro segno di penetrazione in una giuspubblicistica per lo più refrattaria, salve le acquisizioni teorico generali, ad una Normwissenschaft ritenuta avulsa dalla dimensione empirico fattuale delle relazioni sociali (Schulze-Fielitz, 2022, pp. 252-254).
Le cose sono assai diverse in Italia. Le iniziali recezioni di Giorgio Del Vecchio e Arnaldo Volpicelli, la diffusione della giuspubblicistica weimariana, Kelsen incluso, nella dottrina della costituzione degli anni Trenta, con in testa Mortati, hanno presto lasciato il posto a una diffusione più capillare, i cui principali orchestratori sono i due allievi di Gioele Solari a Torino, Renato Treves e Norberto Bobbio e quest’ultimo in particolare, spesso additato, nella colorita espressione dello stesso filosofo torinese, come “uno dei maggiori, se non il maggiore, responsabile della ‘kelsenite’ italiana” (Bobbio, 1992, pp. 5-6).
Proprio due celebri scritti di Bobbio confermano l’acquisita presenza di Kelsen nell’Italia del secondo dopoguerra.
Il primo, La teoria pura del diritto e i suoi critici, appare nel 1954: due anni prima Renato Treves ha potuto finalmente pubblicare per Einaudi la traduzione della prima edizione della Reine Rechtslehre avviata con Del Vecchio negli anni Trenta; Giuseppino Treves e Sergio Cotta hanno tradotto, sempre nel 1952, la General Theory per le Edizioni di Comunità.
Questa di Bobbio è una vibrante difesa della teoria pura del diritto e della corretta distinzione tra il piano della validità e quello della giustizia del diritto, contro le critiche di derivazione giusnaturalistica, in particolare Giuseppe Capograssi che a Kelsen contrappone l’impossibilità della distinzione tra forma e contenuto e il diritto come “unità vivente”, ma anche contro le critiche di derivazione ‘sociologica’ che spaziano dalle teorie comuniste del diritto al realismo americano (Bobbio, 1954).
Il secondo, Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen, esce nel 1970, dopo che Mario Losano ha tradotto nel 1966 per Einaudi la seconda edizione della Reine Rechtslehre ed è l’occasione per Bobbio per ribadire il grande significato di Kelsen “nella storia della teoria del diritto”: Law and Justice di Alf Ross, edito nel 1958 e The Concept of Law di Herbert Hart apparso nel 1961, dice Bobbio, “riconoscono il debito che hanno contratto verso la teoria pura del diritto”. “Malgrado i dissensi dall’opera del maestro, sono opere entrambe nettamente post-kelseniane nel preciso senso che non si possono intendere senza Kelsen” (Bobbio, 1970, p. 66).
In sostanza, sino alla pubblicazione postuma della Allgemeine Theorie der Normen nel 1979, la cui traduzione italiana, sempre a cura di Mario Losano, seguirà per Einaudi già nel 1985, Kelsen in Italia resta attualissimo, anche se naturalmente non esente da critiche, anche frontali.
III. Prese di distanza
Verso la fine del secolo il clima è già mutato, almeno per la necessità di una verifica più circostanziata e prudente della sua attualità. Non invece per l’interesse, anche storiografico, che anzi in terra italiana si fa per Kelsen più intenso e continuo, specialmente sul piano delle traduzioni, ora davvero a largo raggio e rivolte all’intera sua bibliografia, dalla dissertazione su Dante sino agli scritti, prima tralasciati, degli anni Venti e Trenta.
Nel 1997, è ancora Bobbio, in un intenso dialogo con Danilo Zolo, ad ammettere il cambio di prospettiva: “non ho difficoltà a riconoscere che l’intera impostazione kelseniana, alla luce della quale mi sono formato come teorico del diritto, oltre mezzo secolo fa, oggi si trova in grave difficoltà, se non in un vero e proprio discredito”. Aggiungendo un’osservazione per noi particolarmente preziosa: “occorre tenere presente che Kelsen era un pubblicista, veniva dal diritto pubblico: vedeva quindi il diritto molto più dal punto di vista del potere che non da quello delle libertà dei singoli, della vita privata, della privacy individuale” (Bobbio, 1997, p. 113).
Il genere dell’Allgemeine Staatslehre, espressione di “una dottrina dello Stato rigorosamente giuridica”, cui Kelsen nella prefazione del 1925, aveva tributato un vero e proprio omaggio, riconoscendo il suo debito nei confronti della tradizione ed in particolare di Georg Jellinek (Kelsen, 1925, pp. 6 e 9), tutto giocato sul pernio indiscutibile della statualità, perde smalto nel momento in cui i giuristi, che da tempo sono immersi nella “età dei diritti”, iniziano a confrontarsi con la globalizzazione economica, gli ordinamenti multilivello, la lex mercatoria, il diffuso pluralismo giuridico, il dialogo tra le corti, il global administrative law…
Ancora più severo il giudizio, quindici anni più tardi, di Paolo Grossi, uno studioso per più aspetti legato all’insegnamento di Capograssi (Grossi, 2015, p. 78) e fortemente proiettato verso una piena storicizzazione del diritto come ordinamento del sociale. Merita riportare il passo per intero:
imperava incontrastata una visione normativistica e imperativa e imperava quale fidato consigliere il grande corruttore Kelsen, che solo Capograssi, dal cantuccio protettivo della sua ‘esperienza giuridica’ si era provato temerariamente a contraddire.
Corruttore è parola grossa … Kelsen offre, con impeccabile lucidità, una sistemazione dell’ordinamento giuridico apparentemente persuasiva. Al fondo sta, però, un distacco totale fra diritto e società o, il che è lo stesso, fra diritto e storia; un costo enorme per garantire alla dimensione giuridica quella purezza alla quale essa non è – per sua natura – vocata. Conseguentemente, si ha la perniciosa identificazione del diritto nello Stato e nella sua voce (che non può non incarnarsi in un comando) con la ulteriore conseguenza che sanzione e coazione diventano caratteri essenziali della giuridicità. Come ha, con esemplare probità, ammesso Bobbio, il potere domina indirettamente, con una presenza greve, tutto il paesaggio sapientemente disegnato (Grossi, 2015, p.78).
E, così, anche due anni più tardi, quando Grossi mette a punto, nel declinare dell’assolutismo giuridico, un tentativo di ‘scoperta’ del “continente parzialmente sommerso dei valori”, da invenire, in primo luogo dal legislatore, ma a cascata anche da parte del giudice, ed in primis dal giudice costituzionale, attraverso un processo di lettura di una dinamica sociale di cui la carta repubblicana era solo l’innesco, e non la normativistica “urna sigillata”, proprio Kelsen, “acceso (e, purtroppo, fortunatissimo) cantore delle certezze giuridiche moderne” ed espressione di una “visione normativistica e imperativa” poco in sintonia con il pluralismo giuridico del presente, appare in perfetta rotta di collisione, dal momento che “i seguaci del volontarismo normativista non hanno, ovviamente, alcun problema nel parlare normalmente di ‘creare’ e ‘creazione’ per caratterizzare l’attività del legislatore…” (Grossi, 2015, p. 82, nota)7. Quella ‘creazione’ che in misura ridotta, ma estremamente significativa, Kelsen riconosceva, com’è noto, al potere giudiziario artefice della ‘norma individuale’.
Nello stesso torno di tempo giunge a completare il quadro di una verifica, questa volta dall’interno, della possibile inattualità di Kelsen, un volume di notevole impegno di Luigi Ferrajoli, scaturito, nel solco della linea bobbiana, dall’approdo a una fondazione in extenso dei Principia iuris e dei capisaldi teorici della democrazia, che proprio da Kelsen ha preso le mosse (Ferrajoli, 2016)8.
Si tratta di un testo particolarmente significativo ai nostri fini, perché l’inventario delle “aporie”, ritenute presenti nell’opera di Kelsen, non si limita a una verifica della sola tenuta logico-formale della teoria generale kelseniana, ma diventa l’occasione per una messa al passo, nell’ottica di una ‘teoria generale storicamente situata’, del disegno teorico della Scuola di Vienna alle condizioni degli ordinamenti giuridici del presente.
La tesi di Ferrajoli è precisa: quella di Kelsen non è solo una intelaiatura concettuale già in grado di prefigurare, nel primo dopoguerra, gli albori dello Stato costituzionale e dei suoi meccanismi di garanzia. È anche passibile di recepire le integrazioni sostanziali scoperte con il costituzionalismo del secondo dopoguerra. In sostanza, Kelsen ha storicamente elaborato il proprio sistema in un contesto costituzionale, già tipicamente novecentesco, all’insegna di una teoria politica compiuta della democrazia, difesa e praticata in un momento storico dilaniato da un conflitto politico e sociale quasi inestinguibile, e però ancora distante dal primato dei diritti fondamentali e dalla ‘piramide rovesciata’ della costruzione statuale.
Il testo di Ferrajoli è complesso e ha finalità di teoria generale che non siamo in grado di seguire. Ma il senso dell’operazione è chiaro. Il pensiero di Kelsen non è, né può essere interamente attuale; nel confronto con il presente sconta una serie di aporie, che possono però essere corrette, contaminando il vecchio tronco della teoria pura con solide iniezioni di quei principi sostantivi introdotti dalle costituzioni rigide del secondo dopoguerra, restituendogli in questo modo una spiccata attualità.
Non sorprende che sia, così, proprio “l’estraneità alla teoria kelseniana del diritto della nozione di diritti fondamentali” (Ferrajoli, 2016, pp. 52 e ss.; p. 59) una delle principali aporie da correggere. Quei diritti, vero architrave dell’intero ordine politico, a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, il cui inserimento al centro del sistema diventa il principale cavallo di Troia di questo processo di attualizzazione, in grado di traghettare una teoria generale elaborata sull’impianto dello Stato di diritto verso un approdo pienamente coerente con i caratteri e gli obiettivi dello Stato costituzionale9.
Vista dal punto di osservazione della “età dei diritti”, la teoria kelseniana appare lontana, ‘fredda’ nei confronti del principio di uguaglianza e degli stessi diritti fondamentali, chiamati a fissare e a stabilire decisivi vincoli all’azione del legislatore. E quindi distante, nella sua algida catena piramidale di norme, sempre osservate nel loro momento sanzionatorio affidato agli organi dello Stato10, anche dal pullulare delle soggettività, individuali e collettive, che grazie a quei diritti iniziavano ad animare e a rendere vivo e concreto l’ordine giuridico. Una teoria pure contraria a superare il limite del “legislatore negativo” per il giudice costituzionale, ormai invece costantemente chiamato, negli ordinamenti del presente, a sanzionare anche questa “virtuale divaricazione tra il dover essere costituzionale e l’essere legislativo del diritto positivo” (Ferrajoli, 2016, p. 206)11. Con tutte le conseguenze che questo comporta per la stessa scienza giuridica, cui non è più possibile rinchiudersi nel “dogma della pura descrittività e avalutatività del vecchio metodo tecnico-giuridico accolto da Kelsen” (Ferrajoli, 2016, p. 206).
IV. Qualche conclusione
Mi sembra sia possibile cogliere alcune, brevi, conclusioni.
Anche a prescindere dai costi della rivendicata purezza della sua Reine Rechtslehre denunciati dai critici della prim’ora, il diritto pubblico kelseniano è un diritto pubblico serrato nei confini della sovranità statuale, di una sovranità ingabbiata e dissolta, tramite il modello dello Stufenbau, della struttura a gradi, all’interno di un ordine giuridico necessariamente pensato in stretta aderenza alla dimensione e al profilo della statualità moderna: intuizione formidabile nel mettere al passo i modelli ottocenteschi alle nuove realtà costituzionali del primo dopoguerra, ma essa stessa troppo semplice, nel suo schema piramidale, per intercettare la multiformità giuridica del presente e, come si è appena visto, per dar conto compiuto di tutte le implicazioni in termini di ‘giustizia’ innescate dal paradigma dei diritti fondamentali.
Lo stesso primato del diritto internazionale è certamente fondativo di un rivoluzionario monismo in una fase storica – l’interwar period – di sbilanciato, debordante e distruttivo statualismo. Acutissima (e drammaticamente attuale) la sua lettura della giustizia dei vincitori e folgorante il suo saggio del 1947 dedicato al processo di Norimberga (Kelsen, 1947)12. Precorritrice la sua analisi, quanto mai tempestiva, del nuovo ordine globale di ‘nazioni unite’ investite della soluzione judicial e quasi judicial delle controversie internazionali e della protezione della platea, ancora imponente, dei Non-Self-Governing Peoples (Kelsen, 1950, pp. 359 e ss.; pp. 550 e ss.). Quel primato si traduce però in una pretesa di purezza normativa (qui la critica di Danilo Zolo coglie nel segno) “ancor meno proponibile nell’ambito internazionale di quanto non lo sia nell’ambito interno”. Né diritto né politica internazionale possono esser ‘purificati’ prescindendo dalla “sistematica contaminazione teorica fra diritto e potere e fra potere e violenza” (Zolo, 1998, p. 138).
Basta questo per dire che Hans Kelsen non è più attuale? Che Kelsen può essere lasciato interamente a noi storici? Ovvero, detto altrimenti, è sufficiente l’innesto della nozione di “diritti fondamentali” all’interno del suo impianto teorico per riconvertirlo nella dimensione plurale della “età dei diritti”? Ferma, s’intende, l’ineliminabile storicità di ogni pensiero, e a maggior ragione del pensiero giuridico.
Nessun autore weimariano o pre-weimariano può essere in questo senso attuale. Non Schmitt, non Smend, non Heller, non Santi Romano, non Léon Duguit o Harold Laski. A questi pilastri del pensiero giuridico del Novecento non possiamo chiedere lumi su un presente che non hanno conosciuto.
Possiamo al più riprendere degli spezzoni illuminanti del loro pensiero, con un collage che spetta però a noi comporre o ricomporre.
In questo senso, a mio avviso, Hans Kelsen è un giurista completamente novecentesco, che prende le distanze dalla tradizione dello Stato monoclasse e ci introduce all’interno dei conflitti e delle potenzialità dello Stato costituzionale.
Già gli Hauptprobleme del 1911 sono un testo di definitivo congedo dal mondo di ieri, dal die Welt von Gesterne dal monarchisches Prinzip. Le conclusioni kelseniane sono in larga parte rivoluzionarie e del tutto difformi da quelle correnti. Mi limito a elencare i punti di approdo a mio parere più significativi: non è possibile una teoria giuridica dell’origine dello Stato e del diritto; la sovranità non è predicabile dello Stato, ma del solo ordinamento giuridico; l’analogia tra la persona fisica dell’uomo e la persona giuridica dello Stato è insostenibile; la legislazione non è funzione dello Stato e del diritto, ma il presupposto di entrambe; il parlamento è organo della società, non dello Stato: di una società avvertita alla Lorenz von Stein nella molteplicità dei suoi interessi e dei suoi conflitti; la distinzione tra diritto pubblico e privato è funzionale a celare un plusvalore del pubblico che trascende i poteri e le funzioni definiti dall’ordine giuridico; lo Stato può agire e volere solo quanto è stabilito dall’ordine giuridico, con la conseguenza che Justiz e Verwaltung non possono più distinguersi per un tasso, qualitativamente diverso, di libertà dalla norma (Kelsen, 1911).
Con il primo dopoguerra arriverà l’incarico di Karl Renner a lavorare al progetto della costituzione della nuova Repubblica austriaca e quindi il lungo periodo come giudice del nuovo Tribunale costituzionale da questa introdotto.
E sulle tracce di Merkl e Verdross, con l’approdo allo Stufenbau, arriverà anche una compiuta teoria della costituzione; il legislativo tornerà a essere funzione statuale nell’ambito della costituzione; la costituzione troverà il suo giudice per risultare “completamente obbligatoria”. Il modello dello Stato di diritto può completarsi al di là della semplice giustizia amministrativa, con le “istituzioni di controllo” – “condizione di esistenza per una repubblica democratica” (Kelsen 1928, pp. 199 e 201) – e con le norme procedimentali a disciplinare il farsi dell’azione amministrativa.
Si svilupperà la tesi monista di una statualità assorbita all’interno delle regole della comunità internazionale. Si fisseranno le basi di una teoria della democrazia e del parlamentarismo a delimitare i confini del giuridico e a responsabilizzare il ruolo delle comunità politiche.
Un giudizio sintetico di Pietro Costa, ci consente di afferrare la complessità del nostro personaggio: “cancellati il soggetto e lo Stato della tradizione, distinti rigorosamente i piani dell’essere e del dovere, entrano in scena i ‘disordinati’ e reali individui, le loro azioni e interazioni, i loro conflitti e i loro ‘compromessi’, mentre l’ordine normativo, depurato da ogni ‘scoria’ assolutistica e mitologica, viene interamente ridefinito intorno ad alcuni punti di forza (la supremazia dell’ordine internazionale, il primato della costituzione, il controllo di costituzionalità, il rispetto delle minoranze) e viene affidato, come agile e controllabile strumento di disciplina sociale, a individui razionali, tolleranti, dialogici, ‘moderni’” (Costa, 2001, p. 46).
Storicamente immerso nelle drammatiche vicende della prima metà del Novecento, di cui resta lucidissimo testimone, Kelsen rappresenta dunque un passaggio decisivo verso il presente, rivoluzionando l’impianto ottocentesco e guidandoci all’interno delle potenzialità e delle aporie dello Stato costituzionale.
E pienamente novecentesco Kelsen lo è nella presa di distanza dalla sistematica ottocentesca, tanto ancora resistente nel lessico, nelle categorie, nella stessa mentalità del giurista di diritto pubblico e di diritto privato. La pars destruens dell’argomentare kelseniano è ancora attualissima.
Lo è non solo nella fondazione di un’affascinante teoria della democrazia, ma anche nella messa a punto di una teoria della costituzione e delle istituzioni di garanzia adeguata agli sviluppi dello Stato costituzionale e alla conflittualità della società di massa.
Lo è nello smantellamento degli impianti retorici che avevano approfondito il solco tra diritto pubblico e diritto privato, sino a farne una grande dicotomia (anche se il problema – oggi sempre più invasivo dei poteri privati – non viene specificamente tematizzato)13.
Lo è nella opzione per un primato della società internazionale, pur se ancora vissuta – e non poteva essere diversamente tra le due guerre – attraverso un’arena di sovranità e di impenetrabili unità statuali.
È invece il riduzionismo normativistico, espressione di una concezione rigidamente unitaria e monolitica di un ordine giuridico che deve comunque chiudersi, verso l’alto, attraverso una ultimate norm .Recognition of an ultimate Authority), quello che appare ancora un effetto non rimosso del Labandismus14. Mentre la cesoia affilatissima tra essere e dover essere e tra diritto e giustizia lascia fuori dal campo di osservazione del giurista di diritto pubblico, con l’intero pianeta dei valori e gli stessi diritti fondamentali, anche gli snodi di più delicata intersezione tra politica e diritto e quindi i poteri costituenti, il governo, l’indirizzo politico, la decisione …
Esalta oltremodo la legge nel sistema delle fonti del diritto, rendendo inattingibile il coacervo e l’oggettivo pluralismo che caratterizza oggi il farsi dell’ordine giuridico.
Non riesce, nonostante la grande innovazione della prospettiva dinamica e della distinzione tra norma generale e norma individuale, che la struttura a gradi portava con sé, cogliendo il diritto e l’ordine giuridico nel suo divenire, a dar conto della forza dei formanti giurisprudenziali.
Sensibile ai processi di trasformazione delle funzioni pubbliche, non riesce però a far calare all’interno del modello – proprio perché ulteriori a una stretta dimensione normativa – le imbricazioni con l’economia, la crescita esponenziale dei profili prestazionali e di service public, il rilievo strategico dell’organizzazione …
Un grandissimo giurista del Novecento, quindi, testimone e interprete acutissimo delle trasformazioni, che compie un gigantesco balzo oltre la tradizione (Fioravanti, 1987), conducendoci alla radice dei nostri attuali ordinamenti e la cui eccezionale forza speculativa può ancora offrirci lumi importanti quando cerchiamo di orientarci in un presente sempre più indecifrabile.
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Note
1 Sull’intensissimo dibattito weimariano ci siamo intrattenuti in due lavori di alcuni anni fa: (Sordi, 1987; 1989).
2 Ci limitiamo a segnalare, come particolarmente rivelatrici dell’attualità di quella contrapposizione, i lavori di: Beaud-Pasquino, 2007; Kervégan, 2016; Grimm, 2020.
3 Una toccante ricostruzione in Losano, 2008, pp.10 e ss.
4 Da leggersi con Costa, 2001, pp. 225 ss., e Stolzi, 2007, pp. 115-23.
5 Vede in Mortati uno dei principali esponenti dell’”antikelsenismo italiano”, Riccobono, 2017, pp. 35-55
6 L’espressione risale a Marcic (1964); ma viene utilizzata ad ogni ritorno d’interesse per Kelsen (Schönberger, 2013).
7 Una celebre messa a punto dell’atteggiamento di fronte al diritto del positivista e del non positivista in Bobbio (1981, pp. 91-93).
8 Volume espressamente pensato a cascata rispetto alla grande sintesi di Ferrajoli (2007).
9 Di un Kelsen teorico dello ‘Stato legislativo’ e di un Ferrajoli teorico dello ‘Stato costituzionale’ parla anche Barberis, 2017, pp. 225-230.
10 Coglie bene il punto Greco, 2021, pp. 39-46.
11 E vedi Ferrajoli (2016, p. 58 in nota), per la posizione kelseniana nella celebre querelle sul “custode della costituzione”, ove Kelsen valuta del tutto “intollerabile” un annullamento operato dal giudice costituzionale in termini di “ingiustizia” della legge sottoposta a controllo.
12 Un saggio in cui le critiche si appuntano sulla composizione del tribunale, in cui seggono i soli membri degli Stati vittoriosi, e sul principio della responsabilità penale individuale per la violazione delle regole del diritto internazionale che proibiscono la guerra, affermato non come un principio generale del diritto, ma come regola applicabile nei soli confronti dei cittadini degli Stati sconfitti.
13 Per una trattazione più esaustiva si può vedere Sordi, 2020.
14 In questo senso la critica di Grossi (2017, p. 82) appare condivisibile.