La democrazia secondo Hans Kelsen: alcuni temi e controversie

La democracia según Hans Kelsen: algunos temas y controversias

Hans Kelsen’s Democracy: Issues and Controversies

Sara Lagi
Università di Torino, Italia

La democrazia secondo Hans Kelsen: alcuni temi e controversie

Isonomía. Revista de Teoría y Filosofía del Derecho, no. 59, 2023, pp. 158 -178

Ricevuto: 20 July 2023

Accettato: 14 August 2023

Riassunto: In questo saggio, si analizza come, a partire da una radicale e interessante messa in discussione del concetto di popolo, quale soggetto politico, dotato di una propria volontà e presupposto dal sistema democratico, il giurista austriaco Hans Kelsen elabori una teoria della democrazia rappresentativa e parlamentare quale bilanciamento tra eteronomia e libertà. Dopo aver fatto emergere alcune delle componenti teoriche più rilevanti della Demokratielehre kelseniana, si passerà ad esaminarne una serie di aspetti controversi che permettono di problematizzarla.

Parole chiave: popolo, eteronomia, libertà, rappresentanza, parlamentarismo, proceduralismo.

Resumen: En el presente ensayo se analiza cómo el jurista austríaco Hans Kelsen, a partir de una crítica radical e interesante del concepto de pueblo en tanto que sujeto político dotado de voluntad propia y que funge como presupuesto del sistema democrático, elabora una teoría de la democracia representativa y parlamentaria entendida como balance entre la heteronomía y la libertad. Luego de examinar algunos de los más relevantes componentes teóricos de la Demokratielehre kelseniana, se pasará a su problematización, a través del análisis de algunos de sus aspectos más controversiales.

Palabras clave: pueblo, heteronomía, libertad, representación, parlamentarismo, procedimentalismo.

Abstract: This essay addresses how the Austrian jurist Hans Kelsen, starting from a radical and interesting critique of the concept of the people as a political subject, equipped with its own will and as a prerequisite of the democratic system itself, develops a theory of representative and parliamentary democracy considered as a balance between heteronomy and freedom. After discussing some of the most relevant political-theoretical components of Kelsen’s Demokratielehre, the essay will problematize it by focusing on some of its controversial aspects.

Keywords: people, heteronomy, freedom, representation, parliamentarism, proceduralism.

I. Brevi considerazioni preliminari

Hans Kelsen è riconosciuto non solo come uno dei massimi giuristi del XX secolo ma anche come un rilevante pensatore politico. Nella prima metà del ‘900, egli elabora una vera e propria teoria della democrazia, in aperta polemica, peraltro, contro gli estremismi di destra e di sinistra che tanto successo conoscono, in varie parti d’Europa, durante il primo dopoguerra.1

In tal senso, il giudizio di Kelsen non lascia adito a dubbi: tutte quelle forze politiche che ambiscono a superare la democrazia parlamentare, in nome, ad esempio, della ideologia marxista o di quella fascista, o che chiedono, in vario modo, di modificarne il funzionamento, ad esempio sostituendo la rappresentanza politica con una di tipo corporativo – come spesso si invoca negli anni ’20 e ‘30 – saranno destinate a creare sistemi politici in cui l’eteronomia trionferà a danno della libertà, in cui l’autocrazia sostituirà la democrazia (cfr. Kelsen, 2006).

Nello specifico, intendo mostrare come, a partire da una radicale critica del concetto di popolo, quale soggetto politico unitario e dotato di una sua volontà, così come di altri concetti chiave della dottrina democratica moderna, il giurista giunga ad identificare nella democrazia di tipo rappresentativo-parlamentare l’unica forma di governo e di convivenza in grado di garantire e realizzare un efficace compromesso tra il carattere inevitabilmente eteronomo dell’ordine sociale (ossia la insuperabile dicotomia governanti-governati) e il principio di libertà. Discutere in che senso, per Kelsen, tale compromesso prenda forma permetterà di far emergere alcuni dei caratteri portanti della sua concezione democratica, che si sviluppa tra gli anni ’20 e ’50 del ‘900. Di questa, nella parte conclusiva dell’articolo, prenderò poi in considerazione quegli aspetti che considero controversi e che, proprio perché tali, permettono di problematizzarla.

II. Le premesse: gli Hauptprobleme der Staatsrechtslehre (1911)

Ritengo che, testi alla mano,2 Kelsen teorizzi una democrazia senza il popolo o meglio: egli teorizza una democrazia in cui il popolo quale soggetto politico non è il presupposto della democrazia bensì l’effetto, la conseguenza di un meccanismo di integrazione3 politica e sociale di ciò che costituisce, per il giurista, uno dei due indiscutibili presupposti della democrazia, ossia la pluralità sociale, politica, ideale. L’altro è il principio di libertà.

Nel riconoscere alla pluralità un ruolo così rilevante, Kelsen non prende le mosse tanto da qualche assunto filosofico-politico, bensì – come colto con lucidità molti anni fa da Maurizio Fioravanti – da un ripensamento critico e radicale della tradizione giuridica positivista di lingua tedesca di fine ‘800 (Fioravanti, 1987, pp. 53 ss).

Per la “traditionelle Staats und Rechtslehre”,4 che da Carl F. von Gerber e Paul Laband giunge fino a Georg Jellinek, lo Stato è una “persona”, dotato di una volontà data e definita, prius del Diritto, rispetto al quale il parlamento è un mero “organo” (cfr. Stolleis, 1992). Nella imponente monografia del 1911, gli Hauptprobleme der Staatsrechtslehre etwickelt aus der Lehre der Rechtssatze, Kelsen sovverte completamente tale prospettiva: egli separa concettualmente i fatti dalle norme e ciò gli consente di prendere nettamente le distanze dai suoi insigni predecessori e in particolare dalla loro definizione di Stato quale “entità reale” (Kelsen, 1911, pp. 97 e ss; 162-188; 395-412).

Non mi soffermerò ad esaminare le molteplici ascendenze intellettuali sottese alla distinzione kelseniana tra fatti e norme: dal Neokantismo di Hermann Cohen alla lezione psicoanalitica di Sigmund Freud fino al movimento antimetafisico che prende corpo nel Circolo di Vienna; ascendenze sulle quali esiste peraltro una letteratura scientifica internazionale corposa e rilevante (cfr. Telman, 2016; Puppo, 2020). Mi interessa, piuttosto, sottolineare come, proprio a partire da tale distinzione, vengano meno, per Kelsen, sia lo Stato-persona, dotato di volontà, sia il parlamento quale “organo dello Stato”, espressione della “volontà statale”, data come pre-costituita. Quest’ultima è infatti ridefinita dal giurista nei termini di un “centro di imputazione” al quale sono ascritte azioni che, sulla base di criteri fissati in determinate “proposizioni giuridiche”, valgono in quanto “azioni dello Stato” (Kelsen, 1911, pp. 184 e ss; 406 e ss).

Egli opera così, per usare un termine reso celebre da uno dei suoi più interessanti e acuti critici, il giurista socialdemocratico Hermann Heller, una radicale “desostanzializzazione” (cfr. Heller, 1971[1927]) del concetto di Stato e di “Staatsgewalt”, che costituisce la condizione per definire lo Stato quale entità giuridica, e inoltre per riformulare il significato giuridico e poi politico dell’organo legislativo. Secondo la tradizione giuspubblicistica di fine ‘800 il parlamento è infatti mero “organo dello Stato”: si ritiene dunque che la principale funzione del corpo legislativo sia rappresentare la volontà (pre-esistente) dello Stato. Una definizione che contiene in sé, neppure troppo nascostamente, un obiettivo ben preciso, ossia promuovere – in questo caso attraverso la scienza giuridica – un progetto ideologico e politico di stampo conservatore volto, dopo l’ondata rivoluzionaria del ’48-’49, a depotenziare sia l’azione politica delle maggioranze parlamentari, negando ad essa una sua autonomia e ragione d’essere rispetto allo Stato, sia la capacità da parte della società di esprimere uno specifico indirizzo politico attraverso i propri rappresentanti (Fioravanti, 1979, pp. 56-59).

La posizione di Kelsen, che peraltro non condivide quel progetto di matrice conservatrice, è diametralmente opposta: egli definisce il parlamento una istituzione sociale, ossia un “organo della società”, per mezzo del quale viene a crearsi il contenuto politico della volontà dello Stato (Kelsen, 1911, pp. 472-479). In polemica con la tradizione giuridica a lui precedente, egli rivaluta e afferma dunque il legame tra parlamento e società. Quest’ultima, nella monografia del 1911, è descritta nei termini di una dimensione intrinsecamente plurale, composita, esattamente come il popolo (cfr. Kelsen, 1911).

Negli anni successivi, Kelsen tornerà a ribadire che il popolo, in quanto unità, esiste solo sul piano “normativo”. Dal punto di vista “empirico e sociologico”, esso è piuttosto una realtà diversificata, plurale, appunto (Kelsen, 2006[1929], p. 169)5. Il Kelsen giurista e il Kelsen pensatore politico sono dunque accomunati dalla convinzione che, prima della concretissima e complessa vita sociale, non esista alcuna entità (e unità) precostituita, sia essa lo Stato, sia essa il popolo.

III. La democrazia senza il popolo ovvero la democrazia reale, secondo Kelsen: come eteronomia e libertà riescono a conciliarsi

Nell’affermare che il popolo è di per sé, concretamente ed empiricamente, una dimensione plurale, Kelsen sembra quasi finire per far coincidere il popolo con la società. In altre parole, egli ci restituisce un’immagine del popolo ben distante da quella del soggetto unitario, omogeneo, dotato di una propria volontà, che invece appartiene alla dottrina democratica moderna, inaugurata, nello specifico, da Jean-Jacques Rousseau (cfr. Birch, 1993). Il riferimento al filosofo non è casuale: al Ginevrino Kelsen si richiama in maniera esplicita relativamente a due aspetti: da un lato, la distinzione tra democrazia reale e ideale e, dall’altro, la grande questione della volontà generale (cfr. Kelsen, 2006[1929], pp. 153-162). È infatti Rousseau, secondo Kelsen, a elaborare la definizione di democrazia ideale par excellence, ossia la democrazia diretta, in cui il popolo è libero poiché si autodetermina politicamente, ubbidendo a leggi che esso stesso si è dato (Kelsen, 2006[1929], p. 156)6. Ça van sans dire, Kelsen si ripropone, a sua volta, di elaborare la definizione di democrazia reale par excellence.

Il giudizio del giurista è a tal proposito netto: la democrazia diretta, così come immaginata da Rousseau, non può essere realizzata. Kelsen contesta innanzitutto il concetto rousseauviano di popolo, inteso quale soggetto unitario dotato di volontà generale, mettendo altresì in evidenza l’impossibilità di eliminare l’opposizione di interessi tra i cittadini, la diversità e la pluralità di opinioni e ideali, la dicotomia maggioranza-minoranza. Richiamandosi inoltre alla lezione di Max Weber (Kelsen, 2006[1929], p. 175), egli sottolinea come la complessità del corpo sociale e la divisione delle competenze rendano impossibile la partecipazione diretta alla vita politica. E anche se, paradossalmente, ciò fosse possibile, sarebbe tuttavia impossibile superare il carattere intrinsecamente eteronomo dell’ordine sociale, ossia quello iato tra governati e governanti che impedisce la realizzazione di una perfetta autodeterminazione politica (nel senso rousseauviano del termine) (Kelsen, 2006[1929], pp. 156-162).

In Kelsen, la democrazia reale presuppone dunque sia una condizione plurale dal punto di vista sociale, politico, ideale – che il giurista ritiene insopprimibile e impossibile da occultare dietro immagini e formule assorbenti come quella di popolo o di volontà generale – sia la diade, per lui altrettanto concreta, reale e ineliminabile, tra governanti e governati.

Se prendiamo sul serio il punto di vista del giurista, emergono allora due questioni fondamentali: 1) in che senso possiamo continuare a parlare di democrazia e di governo del popolo se quest’ultimo, quale soggetto politico unitario presupposto dal sistema democratico, di per sé, è da ritenersi una finzione, una illusione? E, inoltre, alla luce dell’ineliminabile carattere eteronomo dell’ordine il sociale, 2) come si può essere politicamente liberi nella democrazia reale?

In Kelsen, la risposta ad entrambi i quesiti appare, a mio avviso, indissolubilmente legata al meccanismo partitico-parlamentare, per mezzo del quale la pluralità sociale, politica, ideale si integra nella forma di un governo democratico. Secondo il giurista, la condizione essenziale che consente di innescare tale complesso processo è la piena garanzia dei diritti civili e politici.

Quest’ultimi, in particolare, sarebbero tuttavia esercitati con modalità e intensità differenti da parte dei cittadini: egli distingue infatti tra coloro che non provano alcun interesse per la vita politica, tanto da non recarsi neppure alle urne, e coloro che invece esercitano il loro diritto di voto regolarmente. All’interno di quest’ultimo gruppo, si profila poi un’ulteriore, fondamentale distinzione, ossia fra coloro che esprimono il loro voto influenzati da altri e coloro che “imprimono una certa direzione” alla vita politica dello Stato, riunendosi e organizzandosi in partiti politici, sulla base di convinzioni e progetti condivisi (Kelsen, 2006[1929], pp. 164-166). La concezione kelseniana di democrazia prevede quindi l’esistenza di cittadini, titolari dei diritti fondamentali, che partecipano alla vita politica, con gradi di coinvolgimento differenti, per mezzo dei partiti politici.

Da questa fondamentale premessa Kelsen giunge ad una conclusione che lo colloca su di una posizione opposta e polemica rispetto a chi – nel primo dopoguerra – mette in discussione il pluralismo partitico, ritenendolo fonte di instabilità politica e una seria minaccia all’unità dello Stato.7 Il giurista austriaco afferma infatti, e con grande chiarezza, che il popolo, nella democrazia reale, esiste politicamente nella misura in cui esistono i partiti politici (Kelsen, 2006[1929], pp. 166-167; cfr. Dreier 1986):

Un’evoluzione irresistibile – leggiamo nella seconda edizione di Vom Wesen und Wert der Demokratie – porta in tutte le democrazie ad una organizzazione del “popolo” in partiti. Sarebbe anzi più esatto dire che, poiché in un primo momento non esiste un “popolo” come potenza pratica, l’evoluzione democratica fa sì che la massa di individui isolati si raggruppi e si costituisca in partiti politici, scatenando tutte quelle forze sociali che, in qualche modo, possiamo chiamare popolo (Kelsen, 1998[1929], pp. 70-71; Kelsen, 2006[1929], p. 167).8

Mi sembra allora che i partiti politici, così definiti, possano essere intesi come il primo, fondamentale livello di integrazione della pluralità sociale, politica e ideale. Il secondo livello, sul quale mi soffermerò successivamente, si manifesta quando, all’interno del parlamento, i partiti si raggruppano in una maggioranza e in una minoranza. La critica all’esistenza del popolo quale entità omogenea e pre-costituita appare così funzionale alla elaborazione di una teoria della democrazia reale che si fonda sulla assoluta centralità dei partiti politici, il cui ruolo rimanda necessariamente all’istituto del parlamento e della rappresentanza politica. Per entrambi, proprio come per il concetto di democrazia, Kelsen distingue tra il “significato ideale e reale”. A partire dalla Rivoluzione francese, l’esistenza del parlamento sarebbe stata infatti giustificata in nome del popolo e della sua volontà sovrana. Si sarebbe così ricorsi alla “finzione” della rappresentanza politica, ossia all’idea che “il popolo possa rappresentare la propria volontà tramite il parlamento” (Kelsen, 2006[1929], pp. 174 e ss).

Coerentemente, secondo me, con l’impostazione teorica delineata negli Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, Kelsen contesta l’esistenza di una volontà politica in sé definita, da rappresentare, e propone altresì di guardare al parlamentarismo come “tecnica sociale”, come specifico strumento che consente di mediare tra principio di libertà e complessità del corpo sociale: “il parlamentarismo – scrive Kelsen – è formazione della volontà normativa dello Stato mediante un organo collegiale eletto dal popolo in base al suffragio universale ed eguale per tutti, cioè democraticamente” (Kelsen, 2006[1929], p. 175).

I cittadini, titolari dei diritti fondamentali, eleggono i propri rappresentanti che in parlamento concorrono, organizzati in partiti politici (e nella diade maggioranzaminoranza), alla formazione delle leggi. L’istituto stesso della rappresentanza serve dunque a far sì che i governanti siano investiti delle loro funzioni da parte dei cittadini. Nel tempo, si sarebbe quindi mantenuto il “dogma” della volontà sovrana del popolo, rappresentata realmente e sostanzialmente da coloro che risiedono in parlamento, quando, per Kelsen, la rappresentanza politica è semplicemente il termine che noi attribuiamo ad un particolare processo di autorizzazione allo svolgimento delle funzioni di governo, che procede dal basso verso l’alto: processo che è reso possibile dal riconoscimento dei pieni dritti civili e politici. Egli insiste molto su questo specifico aspetto, ossia sulla garanzia delle libertà fondamentali, in polemica, peraltro, con una serie di obiettivi e bersagli politici ben precisi: nella prima edizione di Vom Wesen und Wert der Demokratie (1920), ad esempio, Kelsen attacca Lenin e il sistema sovietico (Kelsen, 2006[1920], pp. 21 e ss.), nove anni più tardi quelle forze conservatrici o apertamente fasciste che vorrebbero sostituire la rappresentanza parlamentare con una di tipo corporativo-professionale.9

In entrambi i casi, a suo giudizio, ci troviamo di fronte a sistemi e progetti politici che introducono pesanti discriminazioni in termini di diritti politici, mettendo in discussione l’universalità dei diritti fondamentali, e quindi la democrazia stessa (Kelsen, 2006[1929], pp. 182 e ss.).10

Dalla “de-mitizzazione” di due principi portanti della democrazia indiretta, ossia il parlamentarismo e la rappresentanza politica, emerge chiaramente il carattere procedurale della concezione democratica di Kelsen, che sarà esplicitato successivamente nelle Foundations of Democracy del 1955 (Kelsen, 2006[1955], pp. 250-255; cfr. De Capua, 2003), ma che, secondo me, è già del tutto contenuto in Vom Wesen und Wert der Demokratie: in sintesi, il parlamentarismo, di cui la rappresentanza politica è parte integrante e costitutiva, non è altro, per Kelsen, che una specifica procedura attraverso la quale i governati scelgono i loro “capi” (Kelsen, 2006[1929], p. 194).

Proprio l’investitura democratica di quest’ultimi, che implica sia il riconoscimento delle libertà fondamentali ai cittadini, sia la conseguente amovibilità dei governanti tramite il processo elettorale – per cui chi è oggi nella posizione di essere governato può diventare il governante di domani e viceversa – permette così, nella prospettiva kelseniana, di conciliare eteronomia e libertà. Come egli afferma nelle Foundations of Democracy, è solo ponendosi dal punto di vista procedurale che è possibile comprendere come e in quale misura nella democrazia reale la natura eteronoma dell’ordine sociale e il principio di libertà possano non confliggere tra loro (Kelsen, 2006[1955], pp. 250256).

Il rapporto tra governanti e governati, descritto da Kelsen, appare quindi qualcosa di fluido e mutevole, esattamente come quello che si viene a costituire, in parlamento, tra la maggioranza e la minoranza (o meglio fra i partiti politici organizzati e integrati in una maggioranza e in una minoranza), poiché entrambe godono degli stessi diritti. Ciò significa, nel concreto, che la minoranza di oggi può legittimamente aspirare a diventare la maggioranza di domani e la maggioranza di oggi si trova, a sua volta, in una condizione soggetta a mutare, in base ai risultati del “gioco democratico” (Kelsen, 2006[1929], pp. 195 e ss; cfr. Bobbio, 1984).

Da qui, secondo Kelsen, deriva il carattere specifico delle leggi nella democrazia reale, ossia il loro essere frutto di un compromesso tra maggioranza e minoranza, piuttosto che il “diktat” della prima a danno della seconda (Kelsen, 2006[1929], p. 196).

La natura, per così dire, compromissoria delle leggi può essere interpretata, a mio giudizio, come il terzo e forse più alto livello di integrazione della pluralità. Al contempo, per il giurista, più forte e consistente è il compromesso tra maggioranza e minoranza alla base della legislazione, meno intensamente “il fardello dell’eteronomia”, ossia lo iato tra governati e governanti, verrà percepito, in particolare, da coloro che appartengono alla minoranza (fuori e dentro il parlamento) (Kelsen, 2006, pp. 194-199). Ma affinché ciò sia possibile, secondo il giurista, è altresì necessario far sì che la minoranza in parlamento sia ampiamente rappresentata, in modo tale da rendere la sua voce più forte e consistente e quindi permetterle di esercitare una maggiore pressione e un maggior condizionamento sulla maggioranza: da qui la dichiarata e reiterata adesione di Kelsen al sistema proporzionale (Kelsen, 2006[1929], pp. 195-204). Nella democrazia reale così teorizzata, la solidità del compromesso tra maggioranza e minoranza sembrerebbe infine allentare la morsa dell’eteronomia. Insomma, per il giurista, nella democrazia reale, ossia rappresentativa e parlamentare, eteronomia e libertà riescono a conciliarsi, in virtù del particolare modo in cui sono scelti i “capi” e in cui vengono prodotte le leggi.

A ben vedere, in Kelsen, è il modo in cui si governa che qualifica la democrazia reale, piuttosto che il chi governa e ciò è perfettamente coerente con la sua critica al concetto di popolo quale soggetto politico unitario, omogeneo, dotato di una sua, specifica volontà che aspetta solo di essere pienamente espressa. Al posto del popolo sovrano subentrano così, a mio avviso, il concetto di integrazione e di compromesso tra maggioranza e minoranza (cfr. Lagi, 2020). Quest’ultimo, tuttavia, per poter essere realmente fruttuoso, dovrebbe, secondo Kelsen, essere sostenuto da una particolare visione filosofica (“Weltanschauung”), di tipo relativista, che egli identifica sostanzialmente con la consapevolezza della natura mutevole e immanente dei valori e dei principi, in quanto prodotti umani. Proprio tale consapevolezza, per il giurista, sarebbe in grado di nutrire una mentalità tollerante, propensa all’ascolto dell’altro, preziosa e utile affinché maggioranza e minoranza possano giungere ad un compromesso (Kelsen, 2006[1929], pp. 223-228).11

Una visione, quella relativista, che Kelsen interpreta, secondo me, sia come un requisito del sistema democratico – la democrazia nasce laddove, a suo giudizio, si rifiutano concezioni politiche e filosofiche basate su principi/valori ritenuti oggettivi, universali, immutabili che, come tali, sarebbero fonte di intolleranza e violenza (Kelsen, 2006[1929], pp. 223-228; cfr. Kelsen, 1948) – sia come la conseguenza di una forma di governo che si fonda sulla garanzia delle libertà fondamentali e che integra la pluralità piuttosto che cercare di annullarla.

IV. Democrazia reale e giustizia costituzionale: come il compromesso tra eteronomia e libertà può essere rafforzato

La dialettica maggioranza-minoranza, fin qui sinteticamente tratteggiata, comporta chiaramente che tra le due si instauri un rapporto fatto di dialogo e reciproco rispetto che, nella prospettiva filosofica del giurista, sembra essere, in qualche modo, la derivazione, quasi logica e inevitabile del riconoscimento ad entrambe di pari e pieni diritti, oltreché della auspicabile (per Kelsen) interiorizzazione di una concezione relativista. In realtà, se volgiamo lo sguardo ad un’altra opera del giurista, ossia La garantie jurisdictionelle de la constitution del 1928, tale rapporto appare molto meno pacifico e lineare. La visione che Kelsen ha della politica e dei suoi meccanismi è infatti articolata: egli è ben lontano dal ritenere che in democrazia sia possibile la completa pacificazione dei rapporti sociali e politici, poiché, come in parte emerge dalla sua critica a Rousseau, egli prende molto sul serio la contrapposizione tra interessi e visioni differenti, ritenendola parte integrante della cosiddetta democrazia reale (Kelsen, 2006[1929], pp. 154-173). Nello specifico, proprio il saggio del 1928 dimostra come il Kelsen pensatore politico sia realisticamente consapevole di quanto complesso, sfaccettato e ricco di insidie possa essere il rapporto tra maggioranza e minoranza, all’interno del corpo legislativo. Andiamo per ordine. Come noto, Kelsen è, nel primo dopo guerra, il teorico principale del controllo di costituzionalità delle leggi. Egli svolge un ruolo di primo piano nella preparazione delle bozze costituzionali durante il processo costituente austriaco (1919-1920), che porterà alla promulgazione della prima costituzione repubblicana, democratica e federale d’Austria nel 1920 (cfr. Lagi, 2012).

Nella costituzione austriaca compare così il Titolo VI dedicato alle “Garanzie della costituzione e della amministrazione” che prevede appunto l’introduzione di una Alta Corte costituzionale. In particolare, l’art. 140 afferma: “L’Alta Corte costituzionale pronunzia sull’incostituzionalità delle leggi regionali a richiesta del governo federale, sull’incostituzionalità delle leggi federali a richiesta di un governo regionale, ovvero d’ufficio, quando una legge formi il presupposto di una delle sue stesse sentenze”.12

Se ci atteniamo al testo costituzionale, non possiamo non riconoscere come il meccanismo di Verfassungsgerichtsbarkeit vada ad inserirsi in una logica ben precisa, quella di affermare, nel contesto del neonato Stato federale, la supremazia della Legge costituzionale sulle leggi regionali (dei Länder) – ossia le macro-Regioni in cui è storicamente suddiviso il territorio dell’Austria tedesca – e su quelle della Federazione. Proprio tale supremazia deve essere garantita da una Corte ad hoc, che diventa così “l’obiettivo difensore della costituzione” (cfr. Kelsen, 1928 e inoltre Kelsen, 1923). La creazione di un Tribunale indipendente, con il compito di annullare gli atti incostituzionali, è coerente con la Stufenbautheorie kelseniana, al cui vertice si colloca appunto la costituzione stessa (cfr. Bisogni, 2017 e Costa, 2007, pp. 115-117). Tuttavia, proprio nel saggio del 1928, Kelsen si confronta con il tema della giurisdizione costituzionale, facendone emergere un’altra implicazione molto rilevante.

Se infatti, dal punto di vista “giuridico”, la giurisdizione costituzionale è necessaria, a suo giudizio, per rendere la costituzione “realmente obbligatoria”, dal punto di vista della “politica costituzionale” (Kelsen, 1928, pp. 63-64), essa è finalizzata a proteggere la minoranza dalla “tirannia della maggioranza”, preservando così il confronto maggioranza-minoranza, il carattere compromissorio delle leggi e quindi, nella prospettiva kelseniana, il corretto funzionamento della stessa democrazia reale.13 “Se l’essenza della democrazia – scrive il giurista – risiede non già nella onnipotenza della maggioranza ma nel costante compromesso tra i gruppi che la maggioranza e la minoranza rappresentano in parlamento e quindi nella pace sociale, la giustizia costituzionale appare uno strumento idoneo a realizzarlo”. E più avanti aggiunge: “La Corte costituzionale può rappresentare un mezzo efficace nelle mani della minoranza per impedire che la maggioranza violi i suoi diritti giuridicamente garantiti. In questo modo la minoranza può opporsi alla dittatura della maggioranza” (Kelsen, 1928, pp. 136-138). In particolare, con l’espressione “diritti giuridicamente garantiti” della minoranza, Kelsen si riferisce, tra le altre cose, alla impossibilità per la maggioranza di apportare modifiche alla costituzione senza una maggioranza rafforzata e quindi senza l’accordo della minoranza stessa. (Kelsen, 1928, p. 202).

La decisione di esplicitare la connessione tra protezione della minoranza e giurisdizione costituzionale proprio nel saggio del 1928 potrebbe essere ricondotta al particolare contesto storico-politico con cui il giurista si confronta. Dinanzi allo sviluppo in Austria e in Europa di movimenti anti-sistema di estrema destra ed estrema sinistra, avversi alla democrazia parlamentare, ai diritti liberali, e a quelli della minoranza in particolare, Kelsen esplicita altresì la connessione tra giurisdizione costituzionale, protezione della minoranza e della democrazia.

Se teniamo presente che, proprio sul finire degli anni ’20, lo scontro tra i due principali partiti del suo paese, la Socialdemocrazia e il Partito cattolico cristianosociale, ha assunto ormai i contorni di una vera e propria “guerra”, che viene condotta ricorrendo perfino, da entrambe le parti, a proprie milizie paramilitari14 (cfr. Höbelt, 2018, pp. 152214), allora la riflessione di Kelsen sulla Corte costituzionale ci appare come una vera e propria presa di posizione a favore della democrazia rappresentativa e parlamentare quale sistema politico e di convivenza, improntato al dialogo, al rispetto, al confronto, alla piena garanzia dei diritti fondamentali e all’idea che la pluralità sociale, politica debba essere integrata, non soppressa.

Tuttavia, il giurista austriaco è ben distante dal proporre una concezione coerentemente costituzionale di democrazia. In tal senso, è sufficiente volgere lo sguardo verso i meccanismi di giurisdizione costituzionale che si affermano nel continente europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Questi, infatti, presuppongono – almeno secondo una certa linea interpretativa – l’idea, del tutto assente in Kelsen, della costituzione democratica quale depositaria di principi generali e forti che funzionino da limite “sostanziale” all’attività del Legislatore e che la Corte è chiamata, tra le altre cose, a garantire (cfr. Ferrajoli, 2016, pp. 9-65; Fioravanti, 1999, pp. 150 e ss). Al contrario, Kelsen si oppone a qualsiasi ipotesi di inserire, “cristallizzandoli”, principi e valori nel testo costituzionale, in virtù del carattere del tutto immanente e mutevole che egli, relativista convinto, attribuisce ad essi (Kelsen, 1928, pp. 99-110; pp. 118-120). Del resto, la stessa costituzione austriaca del 1920 può essere definita “kelseniana” nella misura in cui essa non contiene, come auspicato dallo stesso giurista, alcun rimando a principi generali (cfr. Merlino, 2019).

Per Kelsen, la costituzione democratica deve dunque contenere, solo e soltanto, quell’insieme di regole, procedure e meccanismi che, a partire dalla piena garanzia delle libertà fondamentali, permettono alla pluralità sociale, politica e ideale di integrarsi nella forma del governo democratico (cfr. Kelsen, 1928; Kelsen, 1931). In questa prospettiva, i giudici costituzionali saranno chiamati a verificare la corretta applicazione di quelle stesse procedure, a far sì che vengano rispettati i “diritti giuridicamente garantiti della minoranza”, e quindi, in poche parole, a far rispettare il “principio di legalità” (cfr. Kelsen, 1928). Se invece, secondo Kelsen, la costituzione democratica contemplasse principi generali o valoriali, allora lo stesso ruolo del giudice costituzionale subirebbe una sorta di “alterazione”: egli diverrebbe un Legislatore vero e proprio, sconfinando nel campo di azione proprio del parlamento (cfr. Kelsen, 1928; Kelsen, 1931). Solo e soltanto quest’ultimo è, per Kelsen, lo spazio designato al libero confronto tra principi, valori, proposte. Il parlamento, e non altri organi, rappresenta il “cuore pulsante” della democrazia reale: è qui, e non altrove, infatti, che i partiti politici, attraverso i quali il popolo assurge ad esistenza politica vera e propria e organizzati in una maggioranza e in una minoranza, elaborano leggi che vincoleranno poi l’intera comunità (Kelsen, 2006[1929], in particolare: pp. 174-181; 193-203).

È indubbio, come ho cercato di sottolineare, che Kelsen abbia ben chiaro dinanzi a sé il pericolo di eventuali maggioranze dispotiche e che quindi ponga il problema di porre un qualche freno al Legislatore, ma non nell’ottica di un progetto di democrazia costituzionale. La sua rimane piuttosto una concezione essenzialmente legislativa del sistema democratico, che – ripeto – identifica solo nel parlamento il centro propulsore della vita politica democratica, sebbene corredata di un “correttivo” importante, rappresentato dalla Corte costituzionale.

In Kelsen, la tirannia della maggioranza deve essere impedita non tanto per proteggere valori fondanti previsti esplicitamente dalla costituzione ma perché, in questo modo, è possibile salvaguardare il compromesso tra maggioranza e minoranza e quindi, in altre parole, la natura compromissoria delle leggi, che, come ho precedentemente argomentato, costituisce, per il giurista, parte integrante del bilanciamento tra eteronomia e libertà, e quindi della stessa democrazia reale e del suo corretto funzionamento. In altri termini, la Corte costituzionale sembra offrire una garanzia ulteriore, rispetto al riconoscimento dei diritti fondamentali, alla investitura democratica dei governanti e ai (presunti) effetti benefici di una “Weltanschauung” relativista, affinché il processo politico virtuoso di una maggioranza e di una minoranza che si confrontano dialetticamente in parlamento possa realizzarsi in maniera efficace e quindi affinché eteronomia e libertà possano conciliarsi pienamente.

In sintesi, attraverso un vero e proprio svuotamento di concetti-chiave della dottrina democratica moderna, quali quello di popolo, volontà generale, rappresentanza politica e parlamentarismo che, a sua volta, è da leggersi in linea di continuità con quanto affermato negli Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, Kelsen delinea una teoria della democrazia reale come riuscita mediazione tra eteronomia e libertà, che è, nello specifico, una teoria della democrazia non solo genericamente rappresentativa ma ancor più parlamentare, poiché fondata sull’evidente primato dell’organo legislativo; liberale, poiché prevede la garanzia delle libertà fondamentali, pluralista, poiché presuppone una pluralità sociale, politica, ideale che si integra progressivamente; partitica poiché è solo attraverso i partiti politici che, per Kelsen, viene a prendere politicamente forma ciò chiamiamo popolo; procedurale, perché il meccanismo parlamentare e rappresentativo serve a scegliere i governanti dal basso; centrata sul compromesso tra maggioranza-minoranza, la cui tutela, nel saggio del 1928, Kelsen affida alla giustizia costituzionale, e infine relativista, nella misura in cui il relativismo è da lui ritenuto la visione filosofica propria della democrazia fin qui definita.

IV. La democrazia secondo Kelsen: alcuni aspetti controversi

A partire dalla radicale messa in discussione del concetto di popolo, che è altresì funzionale ad affermare la centralità della pluralità sociale, politica, ideale e della sua successiva integrazione, il giurista austriaco elabora una teoria della democrazia reale quale democrazia rappresentativa e parlamentare, capace di conciliare eteronomia e libertà. Di tale teoria vorrei ora discutere alcuni aspetti che mi appaiono particolarmente controversi. In particolare, vorrei soffermarmi, da un lato, sulla indubbia rilevanza che Kelsen attribuisce al parlamento e al parlamentarismo e, dall’altro, sulla sua difesa del relativismo. Vado per ordine. È innegabile che la visione kelseniana della politica sia tutt’altro che ingenua. Egli non ignora la conflittualità quale componente intrinseca dell’agire politico. Nella democrazia reale, così come da lui immaginata, tale conflittualità viene sì depotenziata attraverso il processo di integrazione, ma mai eliminata (cfr. Kelsen 2006). Del resto, realisticamente, egli ritiene che la maggioranza possa comportarsi in maniera tirannica. Da qui la necessità, come emerge da La garantie jurisdictionelle de la constitution, di introdurre una Corte costituzionale. Tuttavia, è altrettanto innegabile che egli nutra una fiducia profonda nella capacità degli attori della politica di intendersi razionalmente e di giungere altrettanto razionalmente ad un compromesso. In fondo, si potrebbe affermare che la sua teoria della democrazia presuppone, in tal senso, una robusta fiducia nella ragione umana (cfr. Stewart, 2012), che è peraltro tipica di quella tradizione liberale e liberaldemocratica alla quale egli appartiene (Herrera, 1995, pp. 60-80).

Mi chiedo allora: non è forse questa profonda fiducia nella ragione umana e nella capacità delle persone di comportarsi e intendersi razionalmente che, insieme ad una visione politica incentrata sulla garanzia delle libertà fondamentali e sul riconoscimento della pluralità quale dimensione ineludibile e ineliminabile, portano Kelsen a ignorare le masse che pure, tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, fanno potentemente irruzione, con il loro carico di passioni e irrazionalità, nell’arena politica? (cfr. Marchettoni, 2018). Non a caso, infatti, il cuore della politica democratica, per Kelsen, rimane il parlamento. È vero, mi si potrà immediatamente contestare, che il parlamento al quale Kelsen si riferisce non è certo quello dei notabili, tipico dello stato europeo liberale, monoclasse, ottocentesco (cfr. Meriggi, 2013). Basti qui ricordare che, in Vom Wesen und Wert der Demokratie, egli si riferisce chiaramente a partiti politici moderni, arrivando perfino ad auspicare la loro “costituzionalizzazione” (Kelsen, 2006[1929], pp. 170-173). Tuttavia, è altrettanto innegabile, testi alla mano, che il Kelsen pensatore politico identifichi nel parlamento, e soltanto in esso, lo spazio politico per eccellenza. La stessa dialettica maggioranza-minoranza e la potenziale tirannia della prima a danno della seconda sono da lui ricondotte interamente nell’arena parlamentare: la democrazia reale è parlamentare e la vita politica democratica, nella sua accezione più alta e intensa, si svolge tutta all’interno dell’organo legislativo. Una visione particolarmente interessante, soprattutto se pensiamo al discredito in cui l’istituto e la pratica parlamentari cadono in tante parti d’Europa, durante il primo dopoguerra (cfr. Barth, 2016). Ma altrettanto parziale, nel suo essere, a mio avviso, eccessivamente parlamento-centrica.

Vengo allora al secondo aspetto: il relativismo. Si è visto come, secondo Kelsen, il dialogo e il confronto possano essere in qualche modo “nutriti” da una visione filosofica di tipo relativista, ossia – se ci atteniamo alla definizione che egli ci dà di relativismo – dalla consapevolezza che non esistono valori, principi assoluti, capaci di darsi a priori, bensì soltanto valori e principi mutevoli, plurali in quanto prodotti umani, e quindi del tutto relativi.

Tale consapevolezza, secondo Kelsen, renderebbe le persone più inclini ad ascoltare l’altro, ad andargli incontro e, al contempo, costituirebbe il presupposto filosofico degli stessi diritti liberali di libertà quali il diritto alla libertà di espressione e di opinione. Insomma, egli salda insieme democrazia, liberalismo e relativismo. Ma siamo davvero certi che funzioni così?

Condividere l’idea che i valori, intesi quale creazione umana, siano mutevoli e relativi, che non esistano quindi verità e valori assoluti, non implica necessariamente sviluppare una maggiore predisposizione all’ascolto dell’altro, al rispetto della libertà liberale per eccellenza, quella di opinione, e, in ultima istanza, ad una convivenza autenticamente liberale e democratica.

Anzi, un atteggiamento relativista, secondo la definizione kelseniana, potrebbe sfociare nell’indifferenza di cui, a sua volta, potrebbero pericolosamente approfittarsi movimenti o gruppi avversi alla democrazia, o potrebbe, a sua volta, generare intolleranza, per cui si potrebbe giungere alla conclusione che mettere in dubbio la bontà del relativismo sia sconveniente e inaccettabile. Al contempo, credere con forza in alcuni valori, nella loro giustezza ed essere disposti a difenderli con fermezza non comporta necessariamente, come invece sembra pensare Kelsen (cfr. Kelsen, 2006[1929]; Kelsen, 1948), sviluppare un atteggiamento di chiusura e intolleranza verso l’altro o ricorrere alla violenza nel caso in cui questi vengano criticati e contestati. In altri termini, secondo me, è tutt’altro che pacifico il collegamento posto da Kelsen tra relativismo, libertà e democrazia.

Si potrebbe allora contro-argomentare che, nel richiamare l’attenzione sulla immanenza, mutevolezza e relatività dei valori e dei principi, Kelsen voglia prima di tutto porre l’accento sull’importanza per ciascuna persona di assumersi la responsabilità delle proprie scelte – e in tal senso il suo relativismo sembrerebbe così avvicinarsi al pluralismo teorizzato dallo storico delle idee Isaiah Berlin (cfr. Berlin, 2002) – quale aspetto centrale della vita democratica: è una interpretazione condivisibile, suffragata, in parte, da quanto Kelsen stesso afferma in un suo saggio del periodo americano, What is Justice? (1957), in cui leggiamo che vivere in democrazia significa essere pienamente consapevoli dei rischi che questa può correre, del fatto che possa essere minacciata dal suo interno. Considerazioni che sembrano riecheggiare il Karl Popper di The Open Society and Its Enemies (Kelsen, 1957, pp. 22-24 e cfr. Popper, 2020). Tuttavia, resta aperta una questione di non secondaria importanza: anche laddove si voglia leggere il relativismo di Kelsen secondo tale prospettiva, mi pare che egli tenda comunque a sottovalutare come e quanto proprio il senso di responsabilità dell’uomo democratico debba essere in qualche modo coltivato e sostenuto. Sappiamo che Kelsen si impegna molto, soprattutto a cavallo tra gli anni ’10 e gli anni ’20, in numerose e lodevoli iniziative a favore della diffusione e del potenziamento dell’istruzione dei lavoratori, a favore dell’emancipazione delle donne, nell’ottica dello sviluppo di una mentalità democratica, del progresso sociale, di una cittadinanza responsabile (cfr. Ehs, 2009).

Un impegno che rimane tuttavia confinato alla vita pratica e personale e al quale, con un’unica eccezione risalente al 1913,15 egli non si riferisce mai esplicitamente nelle sue opere di teoria politica. Perché? Forse perché questo lo avrebbe costretto a riconoscere che sia il processo di integrazione della pluralità sociale, politica, ideale, sia il compromesso tra eteronomia e libertà – e quindi, in breve, ciò che egli definisce democrazia reale – hanno bisogno di presupposti che non sono solo la garanzia, per quanto vitale, preziosa e necessaria, dei diritti fondamentali e di un meccanismo di autorizzazione dal basso dei governanti (parlamentarismo). O meglio, secondo me, tali presupposti potrebbero essere di per sé sufficienti, in presenza di determinate condizioni. Ritengo infatti che, pur avendo l’indubbio merito, allora come oggi, di porre l’accento sul tema della libertà e della pluralità, la teoria democratica kelseniana sembri essere particolarmente adatta a spiegare il funzionamento del governo democratico in specifici contesti, relativamente pacifici, sul piano sociale e politico, in cui la pluralità non sia sinonimo di frammentazione, in cui i contrasti e le contrapposizioni in termini di visioni e progetti non siano né radicali, né insanabili, in cui non si metta in dubbio la bontà di una convivenza democratica, in cui le differenze socio-economiche non siano troppo marcate, in cui ad una diffusa consapevolezza democratica da parte dei cittadini corrisponda una classe dirigente matura e responsabile, e in cui esista – mi si passi questo termine che a Kelsen non sarebbe sicuramente piaciuto – una certa omogeneità culturale. In altri termini, la sua teoria politica mi sembra adatta a spiegare il “gioco democratico” a partire da una serie di condizioni di natura sociale e valoriale che, tuttavia, non trovano alcuna esplicitazione nella sua opera.

Forse perché, in caso contrario, Kelsen avrebbe dovuto mettere in discussione quella che, secondo me, è una delle sue convinzioni più profonde, ossia che una teoria della democrazia in grado di valorizzare adeguatamente il principio della libertà, della pluralità (e della sua integrazione), della dialettica maggioranza-minoranza, il dialogo costruttivo, la tolleranza e di spiegare come libertà ed eteronomia possano efficacemente conciliarsi debba necessariamente rinunciare a qualsiasi contenuto sostanziale, che non sia la libertà medesima (cfr. Kelsen, 2006).16 Una convinzione che, a sua volta, appare, secondo me, perfettamente coerente con quella opera di sistematica de-sostanzializzazione di concetti quali popolo, volontà del popolo, parlamentarismo e rappresentanza politica, le cui radici più profonde possono essere ricondotte, per certi aspetti, alla celebre monografia del 1911, Die Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, e che costituisce, come ho cercato di argomentare, una componente integrante della sua concezione di democrazia reale quale compromesso tra eteronomia e libertà.

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Note

1 Si vedano tutti i saggi contenuti in Kelsen, 2006.

2 In questo articolo, mi riferirò, in particolare, alla seconda e definitiva edizione della sua opera politica più celebre, ossia Vom Wesen und Wert der Demokratie (1929) – la prima edizione risale al 1920 – al saggio di teoria costituzionale La garantie jurisdictionelle de la constitution (1928) e alla sua ultima opera di pensiero politico, le Foundations of Democracy. Sia le due edizioni di Vom Wesen und Wert der Demokratie, sia le Foundations of Democracy sono ora contenute in Kelsen, 2006.

3 Il termine integrazione compare anche nella prima edizione di Vom Wesen und Wert der Demokratie (1920) ma, a mio giudizio, diventa ancor più rilevante nella seconda edizione del 1929 (cfr. Kelsen, 2006, pp. 182-191).

4 L’espressione è di Kelsen (cfr. Kelsen, 1911).

5 Questa particolare idea di popolo caratterizza tutti i suoi principali contributi dedicati alla teoria politica (cfr. Kelsen, 2006).

6 Nello spazio limitato di questo contributo, non è mio intento discutere la validità o meno della interpretazione kelseniana del pensiero politico di Rousseau, bensì prenderne atto e spiegare come tale interpretazione sia funzionale ad un certo modo di intendere la democrazia reale, quale democrazia indiretta e rappresentativa. Su Kelsen lettore di Rousseau (cfr. Sferrazza-Papa 2022).

7 Tanti sono, nel primo dopoguerra, gli avversari del pluralismo partitico, uno su tutti, Carl Schmitt (cfr. Schmitt, 2017 [1923]). Nel 1929, Kelsen si riferisce in maniera esplicita al giurista tedesco Heinrich Triepel, il quale, nel suo Die Staatsverfassung und die politischen Parteien (1927), attacca i partiti politici, accusandoli di essere espressione di una visione atomistica della politica. Nel 1928, in occasione della Conferenza dei giuspubblicisti tedeschi, Kelsen e Triepel si scontrano su di un altro tema “caldo”, ossia il significato e i compiti della giurisdizione costituzionale, difesa dal primo e avversata in maniera convinta dal secondo (Caldwell, 1997, p. 125).

8 La traduzione italiana del passo sopra riportato è tratta dalla versione italiana della seconda edizione di Vom Wesen und Wert der Demokratie.

9 I conservatori austriaci, ossia il partito cristianosociale guidato dal sacerdote Ignaz Seipel, propongono, tra il 1928 e il 1929, una riforma della Costituzione austriaca del 1920, che preveda l’introduzione di una Camera a rappresentanza corporativa (cfr. Kelsen, 1929; Berchtold, 1979).

10 Relativamente alla Russia bolscevica, Kelsen menziona infatti la prima costituzione sovietica del 1918, in cui si introducono pesanti discriminazioni sul piano dei diritti concessi. In particolare, la borghesia viene privata dei diritti politici. Il suo giudizio è netto: nella Russia sovietica ha preso forma una vera e propria dittatura (Kelsen, 2006[1920], pp. 29-31).

11 Sui significati di relativismo in Kelsen e sulle possibili controversie che esso pone (cfr. Pintore, 2000).

12 Si veda il testo completo della prima Costituzione democratica austriaca (1920), disponibile (solo in versione italiana) presso l’Archivio (online) della Costituzioni storiche dell’Università di Torino: http://www.dircost.unito.it/cs/docs/austria192.htm (consultato in data 28 Giugno 2023).

13 Ricordo che, coerentemente con quanto teorizzato nelle sue opere di pensiero politico, nel saggio del 1928, il giurista afferma che la costituzione (democratica) è da intendersi quale espressione di un compromesso tra le principali forze politiche di un paese. Né la democrazia, quale forma di governo, né la costituzione democratica presuppongono quindi alcun popolo quale soggetto politico omogeneo e unitario (Kelsen, 1928, pp. 6364).

14 Mi sto riferendo alla Lega di difesa repubblicana, per il partito socialdemocratico, e alla Guardia Locale, per quello cristianosociale.

15 Mi sto riferendo a Politische Weltanschauung und Erziehung ora in Kelsen, 2010[1913].

16 In particolare, nelle Foundations of Democracy leggiamo: “il problema della democrazia non è quello del governo più efficiente, altre forme possono ben esserlo di più. Esso è invece il problema di un governo che garantisca la maggiore libertà individuale possibile” (Kelsen, 1998 [1929], p. 255; Kelsen, 2006[1955], p. 293).