Hans Kelsen: al di là della purezza. Un’introduzione

Hans Kelsen: más allá de la pureza. Una introducción

Hans Kelsen: Beyond Purity. An Introduction

Giovanni Bisogni
Università di Salerno, Italia
Alberto Puppo
ITAM, México

Hans Kelsen: al di là della purezza. Un’introduzione

Isonomía. Revista de Teoría y Filosofía del Derecho, no. 59, 2023, pp. 136 -140

Ricevuto: 22 November 2023

Accettato: 25 November 2023

Ancora Kelsen!? Kelsen è fuori moda, si dice. In un’età in cui la lex rei publicae sembra contare molto di meno della lex mercatoria; in cui la fenomenologia del diritto si è fatta così plurale che quello statale è solo una fra le tante manifestazioni di diritto; infine, in un’età in cui ai giuristi si chiede di interpretare il diritto “nella sua luce migliore”, non ha molto spazio un pensatore per il quale del diritto si può dare una definizione per genere prossimo e differenza specifica e la sua differenza specifica sta nell’organizzazione della forza…

Ma proprio perché fuori moda è bene occuparsi di Kelsen – è questa la convinzione sottesa a tutti i contributi di questo focus. E proprio per fare emergere l’eccentricità di Kelsen rispetto al mainstream giusfilosofico contemporaneo e, quindi, proprio per questo motivo, la sua perdurante attualità, i loro autori hanno trattato del suo pensiero a partire da un’angolatura diversa da quella consueta – una prospettiva “al di là della purezza”.1

A cominciare dal contributo di Bernardo Sordi, per il quale Kelsen è stato innanzitutto un “giurista universale”. “Universale” in un preciso senso storiografico: trattare Kelsen non più solo come l’autore della dottrina pura del diritto, ma anche quale interprete dalla carriera “in grado di spaziare dalla teoria generale al diritto costituzionale e amministrativo, dalla teoria della democrazia al diritto internazionale; segnata da prestigiosi ruoli istituzionali, rilevanti successi accademici, grandi collaborazioni internazionali, culminati in una straordinaria diffusione del suo pensiero”. In effetti, lungo questo itinerario Kelsen ha riscosso un enorme successo e ha sollevato al tempo stesso anche feroci ostilità – che, se si vuole, hanno contribuito indirettamente al suo successo –; e, tuttavia, se si tirano le somme di questo itinerario, se lo si considera con uno sguardo retrospettivo, Kelsen sembra essere stata una splendente meteora.

I giuristi di diritto positivo non lo hanno seguito. È stato così in Francia ove, nonostante la presenza di studiosi a lui vicini, Kelsen non è riuscito a far breccia fra interpreti ancora molto legati alla propria tradizione nazionale. È stato così in Germania, dove periodicamente si parla di “Kelsen-Renaissance”, ma il suo pensiero viene considerato troppo astratto e troppo poco ‘fattuale’ per essere utile nelle pratiche interpretative degli operatori del diritto. Ed è così persino in Italia – il paese che forse lo ha maggiormente tradotto –, ove lo si omaggia come il padre putativo della giustizia costituzionale in Europa, ma lo si critica per aver trascurato quello che è il pane quotidiano dei giudici costituzionali: quei diritti fondamentali, che oggi vengono considerati come “trumps”, come ‘briscole’ nell’argomentazione giudiziaria, ma che a Weimar Kelsen vedeva per lo più come potenziali strumenti di lotta politica in una partita che sovente era unfair e in cui ci si giocava il diritto all’esistenza politica (e talvolta anche fisica).

Ma in realtà è proprio questa la cifra storica di Hans Kelsen. La sua pars construens verosimilmente non è più proponibile, ma “la pars destruens dell’argomentare kelseniano è ancora attualissima. Lo è non solo nella fondazione di un’affascinante teoria della democrazia, ma anche nella messa a punto di una teoria della costituzione e delle istituzioni di garanzia adeguata agli sviluppi dello Stato costituzionale e alla conflittualità della società di massa”.

Ed è ciò che evidenzia Sara Lagi nel suo contributo, dedicato proprio alla teoria kelseniana della democrazia. Una teoria demistificante, quasi dissacrante, nei confronti di quel soggetto che sia nella storia del pensiero politico che nelle carte costituzionali presenti e passate è comunemente additato come il protagonista di questa forma di governo: il demos, il popolo.

Il popolo, in Kelsen, è un posterius, non un prius. Il popolo non esiste prima del funzionamento della democrazia. Prima del funzionamento della democrazia esiste solo la società: esiste un aggregato naturalmente differenziato, fatto di individui, ognuno dei quali animato da propri interessi, da una propria visione del mondo, alla ricerca di un regime che allenti il “fardello dell’eteronomia”. La democrazia, per Kelsen, è allora solo questo: un modo di organizzare i poteri pubblici grazie al quale massimizzare l’autonomia ovvero il diritto di ciascun individuo a darsi le proprie leggi. E poiché questo ideale non è realizzabile nella sua interezza, ci si può solo approssimare per difetto, escogitando quei mezzi più adeguati al raggiungimento di questo fine.

Di qui l’essenzialità delle elezioni che, però, devono essere rigorosamente proporzionali, perché qualsiasi sistema elettorale di tipo diverso non restituirebbe quella sommatoria (e quel pluralismo) delle individualità di cui consiste la società. Ma di qui soprattutto la centralità del parlamento che è l’istituzione più ‘vicina’ (lo si ripete: non al popolo, ma) alla società, quella che meglio di tutte le altre permette a ciascun individuo di potersi dire autore delle leggi che lo obbligano. Ed infatti, il parlamento non ha il compito di mettere in scena una unità – in qualsiasi modo essa venga concepita (nazione; volontà generale; etnos) – che gli pre-esista. Il parlamento è solo una “tecnica sociale” come tante altre e la sua legittimità, la sua centralità, sta esclusivamente nella sua adeguatezza rispetto allo scopo (lo si è detto: l’unico scopo) che regge la democrazia ovvero rendere autonomia ed eteronomia il più possibile dei cerchi concentrici – non certo partecipare alla costruzione di una finzione teatrale quale potrebbe essere la rappresentanza di un intero popolo.

È questa la ragione per la quale i partiti politici contano. Non sono accidentalia della democrazia: solo una visione monista, solo la convinzione che si dia in rerum natura una soggettività sociale, uno spirito unitario, una coscienza collettiva può vedere nei partiti una minaccia alla stabilità e alla coesione dell’ordine sociale. Anzi, è vero esattamente il contrario: proprio la mancanza previa di una soggettività sociale, di uno spirito unitario, di una coscienza collettiva, rende estremamente preziosi i partiti politici nel raggiungere un consenso il più largo possibile e nell’agevolare l’individuo nella sua aspirazione a poter dire di essere, anche in minima parte, artefice delle leggi che lo obbligano. Leggi che, pertanto, sono tutt’altro che “l’expression de la volonté générale” (art. 6, Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen de 1789): sono più modestamente il prodotto di un negoziato fra partiti, un negoziato che è tanto più legittimo quanto più corrisponde alla volontà della maggioranza e quanto più la minoranza abbia la concreta chance di poterlo rivedere quando diventerà maggioranza.

Non c’è dubbio: una “tecnica sociale” assolutamente demolitiva delle retoriche vecchie e nuove sulla democrazia e, quindi, ancora attuale in società fortemente plurali, anzi decisamente polarizzate, come quelle contemporanee. Ma al tempo stesso una tecnica sofisticata che, nonostante il relativismo su cui espressamente si basa, presuppone molto. Presuppone un homo democraticus: un essere umano che sia così addestrato alla razionalità da mostrarsi tollerante, relativista, e che soprattutto sappia tenere a bada quell’apertura alla dimensione trascendente (sia autenticamente religiosa, sia laica nella forma di ideologie di massa), che pure ha rappresentato un capitolo esplorato “al di là della purezza”.

È proprio alla possibile presenza e alla complessità di una siffatta dimensione trascendente che Carlos M. Herrera dedica il suo contributo, centrato su ciò che l’autore chiama “l’argomento teologico in Kelsen”. Anche se è probabilmente improprio parlare, a proposito dell’autore austriaco, di una teologia politica, nel senso in cui si usa tale espressione con riferimento a Carl Schmitt, è altrettanto improprio negare l’esistenza di una preoccupazione che ha accompagnato le sue opere dagli inizi – la dissertazione su Dante – fino all’opera dedicata alle religioni secolari, che decise di ritirare dalle stampe.

Carlos M. Herrera distingue analiticamente tra “tre grandi aspetti della relazione che la teoria pura intrattiene con la teologia”: “l’argomentazione come forma discorsiva specifica”, “la descrizione o ricostruzione di tesi teologiche” e “il problema teologico o religioso”. L’autore si concentra sul primo aspetto, senza dubbio quello che, sin dalle prime opere, contribuisce alla comprensione della sua rivoluzionaria teoria dello Stato, inteso come personificazione di un ordinamento giuridico e non più come sostanza metafisica preesistente. La comparazione, come direbbe Wittgenstein, tra le grammatiche dei concetti di Dio e Stato, sin dagli anni ’20, gli permette di smascherare falsi problemi o presupposizioni ideologiche proprie del suo tempo.

I suoi lavori degli anni del dopoguerra, anche se cambia il contesto, continuano ad usare l’argomentazione teologica per mettere in luce aspetti politico-ideologici nascosti in certe teorizzazioni pseudo-secolari. Anche se può sembrare sospetto, quasi una confusione, il fatto di mostrare le contaminazioni tra epistemologia, teologia, diritto e politica, costituisce parte del progetto filosofico kelseniano, dove la purezza si raggiunge non negando le contaminazioni, ma riconducendo ogni elemento al suo metodo e ai suoi presupposti.

Eppure, come sottolineato da Herrera, più Kelsen si confronta, soprattutto negli anni ’50, con la tendenza a costruire teologie politiche (in particolare quella di Eric Voegelin), più diventa diffidente: “Anche se continua a difendere la rilevanza scientifica, [Kelsen] segnala l’esistenza di due pericoli: ignorare le differenze essenziali tra i due fenomeni e, cosa che sembra essere piuttosto una conseguenza del primo avvertimento, trovare un’identità laddove solo esiste una analogia”. È così che le grandi teorie della democrazia, sviluppate nel dopoguerra da grandi ed influenti pensatori cristiani, diventano il suo bersaglio nello studio dedicato ai fondamenti della democrazia.

Al di là della purezza della sua propria teoria, dalle prime opere fino agli scritti “americani”, sembra che Kelsen abbia perennemente lottato per smascherare le contaminazioni ideologiche. Triste è forse constatare che sembra talvolta che tanto i suoi difensori come i suoi critici si sono forse più dedicati a costruire un’immagine granitica di Kelsen, vuoi per ergersi dogmaticamente sopra di essa, vuoi per stigmatizzarla come esempio di tutti i mali meta-teorici.

Speriamo che i testi qui riuniti, al di là del loro valore intrinseco, restituiscano a Kelsen e alla sua opera una ricchezza che non si costruisce su una purezza più fantomatica che reale, ma sulla profondità storica, politica e giuridica del suo pensiero, una vera cartina tornasole delle contraddizioni e delle rivoluzioni giuridico-politiche del ventesimo secolo. Proprio perché su tali contraddizioni si è costruito lo Stato costituzionale contemporaneo, il Kelsen posto “al di là della purezza” dovrebbe essere un passaggio obbligato per ogni studioso di scienze sociali.

Note

1 I testi qui introdotti sono stati presentati e discussi tra l’aprile e il maggio 2022 presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Salerno in un ciclo di seminari organizzato nell’ambito di un accordo di cooperazione internazionale fra il medesimo Dipartimento e il Departamento de Derecho dell’ITAM. La loro collazione e la presente introduzione hanno avuto luogo durante il soggiorno di visiting researcher svolto da Alberto Puppo tra ottobre e novembre 2023 presso l’Università di Salerno.