Dietro al velo del diritto positivo. A proposito di Il diritto contro se stesso. Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi, di Massimo La Torre
Detrás del velo del derecho positivo. Sobre Il diritto contro se stesso. Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi, por Massimo La Torre
Behind the Veil of Positive Law. On Il diritto contro se stesso. Saggio sul positi- vismo giuridico e la sua crisi, by Massimo La Torre
Dietro al velo del diritto positivo. A proposito di Il diritto contro se stesso. Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi, di Massimo La Torre
Isonomía. Revista de Teoría y Filosofía del Derecho, no. 55, 2021, pp. 118 -141
Received: 27 May 2021
Accepted: 27 July 2021
Sommario: Nel suo ultimo lavoro – Il diritto contro se stesso. Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi – Massimo La Torre sostiene una tesi ben precisa: se non vogliamo che il diritto sia solo violenza messa in forma, è bene prendere le distanze dal positivismo giuridico. Il rischio, tuttavia, è che l’antipositivismo finisca con il ‘buttare il bambino con tutta l’acqua sporca’. Il diritto moderno, infatti, prende forma nella dialettica fra morale e potere, fra cosa si decide e chi decide, in termini habermasiani fra “legittimità” e “positività”. Non è detto affatto che questa dialettica riesca a comporsi praticando solo il giuspositivismo, soprattutto poi se esso schiaccia la “legittimità” sulla “positività”. Ma anche un antipositivismo che si sbilanciasse in direzione della morale, di cosa si decide, in breve della sola “legittimità”, finirebbe con il cadere in un errore esattamente eguale e contrario a quello del positivismo.
Parole chiave: Massimo La Torre, giuspositivismo, antipositivismo, legittimità, positività, razionalità sostanziale (ratio), razionalità procedurale (auctoritas).
Resumen: En su última obra –Il diritto contro se stesso. Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi– Massimo La Torre sostiene una tesis muy precisa: si no queremos que el derecho sea sólo violencia organizada, es oportuno distanciarse del positivismo jurídico. El riesgo, sin embargo, es que el antipositivismo acabe “tirando el bebé con el agua de la bañera”. El derecho moderno, de hecho, toma forma en la dialéctica entre la moral y el poder, entre lo que se decide y quién decide, en términos habermasianos: entre la “legitimidad” y la “positividad”. No es en absoluto seguro que esta dialéctica pueda conciliarse practicando únicamente el positivismo jurídico, sobre todo si esto aplasta la “legitimidad” sobre la “positividad”. Pero incluso un antipositivismo que se incline demasiado por la moral, por lo que se decide, en definitiva por la “legitimidad” solamente, acabaría cayendo en un error exactamente igual y opuesto al del positivismo.
Palabras clave: Massimo La Torre, positivismo jurìdico, antipositivismo, legitimidad, positividad, racionalidad sustantiva (ratio), racionalidad procesal (auctoritas).
Abstract: In his recent book – Il diritto contro se stesso. Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi – Massimo La Torre advances a clear thesis: legal positivism must be rejected unless we wish to keep understanding law as regulated violence. However, this anti-positivism could amount to throwing the baby out with the bath water. Indeed, in modern times law is constituted through the dialectic between morality and power, between what is decided and who decides, between “legitimacy” and “positivity” in Habermasian terms. This by no means implies that the right balance in this dialectic is to be found only in legal positivism, especially when it claims to assimilate “legitimacy” to “positivity”. But an antipositivism pending too much towards morality, to what is decided, too concerned with “legitimacy”, would end up falling into the equivalent, even if opposite, error of positivism.
Keywords: Massimo La Torre, legal positivism, antipositivism, legitimacy, positivity, substantive rationality (ratio), procedural rationality (auctoritas).
I. Introduzione
È famosa l’affermazione di Kelsen: “La questione che mira al diritto naturale è l’eterna questione di che cosa si nasconde dietro il diritto positivo. E chi cerca la risposta troverà, temo, non la verità assoluta d’una metafisica o l’assoluta giustizia di un diritto naturale. A chi solleva il velo e non chiude gli occhi si parerà dinanzi lo sguardo fisso della testa di Gorgone del potere” (AA.VV, 1927, pp. 54-55 – traduzione mia).
Dinanzi a questo sincero esercizio di disincanto diventa quasi istintivo chiedersi: se dietro al diritto non v’è nient’altro che il potere, chi ci difenderà allora dalla Gorgone? È una domanda classicamente giusfilosofica, soprattutto, poi, per quei filosofi del diritto che non si attardano in noiosi ed oziosi specialismi, pensando che locuzioni come ‘diritto naturale’ e ‘diritto positivo’ con i correlati di ‘giusnaturalismo’ e ‘giuspositivismo’ siano appropriati solo per i compendi di storia della filosofia (del diritto). Tra questi senza dubbio figura Massimo La Torre, il cui ultimo lavoro – Il diritto contro se stesso. Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi (La Torre, 2019) – sostanzialmente si chiede se il diritto sia qualcosa di più che un mascheramento del potere. E da questo punto di vista l’autore si muove in direzione diametralmente opposta a quella kelseniana: se non vogliamo che il diritto sia solo violenza messa in forma, è bene prendere le distanze dal positivismo giuridico.
Siffatto antipositivismo è ben argomentato dall’autore. Il testo è denso e estremamente istruttivo, non foss’altro perché i filosofi presi in considerazione sono sicuramente dei ‘classici’ (o sulla via per diventarlo). Anzi, per l’autore, se si vuole rispondere ad una domanda di questa portata, non ci si può nemmeno limitare a quei mostri sacri che sono Hans Kelsen e Herbert L.A. Hart, e questo perché – condivisibilmente – non ci si può autoproclamare filosofi del diritto “senza aver mai letto una riga di Platone, Aristotele o Kant, e senza essersi curato di darsi una formazione filosofica generale” (La Torre, 2019, p. 34).
E tuttavia, come cercherò di dimostrare, il timore è che, come si suol dire, con l’antipositivismo ‘si butti il bambino con tutta l’acqua sporca’. Con ciò, si badi, non si vuole sottintendere l’ennesima difesa del positivismo giuridico in una delle sue tante versioni. Si tratta, invece, di cogliere i temi trattati al di là della contrapposizione fra positivismo e antipositivismo: si tratta di capire che il diritto moderno prende forma nella dialettica fra morale e potere, fra cosa si decide e chi decide, in termini habermasiani fra “legittimità” e “positività”. Non è detto affatto che questa dialettica riesca a comporsi solo proclamandosi giuspositivisti – anzi, come vedremo, è esistito storicamente una forma di giuspositivismo che ha declinato questa dialettica puntando decisamente a favore della “positività” e per questo si è rivelato sicuramente perdente. E tuttavia, un antipositivismo esattamente eguale e contrario, un antipositivismo che si sbilanciasse in direzione della morale, di cosa si decide, in breve della sola “legittimità”, avrebbe scarse chance di offrirci un velo sufficientemente robusto da proteggerci dallo sguardo di Medusa.
Questa tesi sarà articolata in tre passaggi: se serva ancora un libro antipositivista (II); un po’ di storia del positivismo giuridico (III); infine, la sua crisi contemporanea (IV).
II. Serve ancora un libro antipositivista?
Ha senso scrivere ancora oggi un testo di critica al giuspositivismo? Molti indizi spingerebbero a credere di no. Ad esempio, se consideriamo esclusivamente i filosofi del diritto, non sembra che il giuspositivismo sia così diffuso (ed eticamente pernicioso) da farne una ‘delenda Carthago’. Tuttavia, dinanzi a questa affermazione occorrerebbe immediatamente arrestarsi perché qualsiasi filosofo del diritto, giuspositivista o meno, dai tempi di Bobbio e di Hart è stato educato a distinguere fra vari tipi giuspositivismo e occorrerebbe allora specificare quale di essi non sarebbe più così tanto diffuso.
Confesso, però, che tale richiesta ormai ha acquistato il sapore di una manovra dilatoria, buona solo a prendere tempo per evitare di chiedersi “che cosa si nasconde dietro il diritto positivo”. Non è un caso, infatti, che l’autore non indulga nella tradizionale tripartizione bobbiana oppure nella polisemia, altrettanto tradizionale, di Herbert L.A. Hart e per una ragione tutto sommato semplice: il punto di divergenza fra positivismo e antipositivismo sta in quella che oggi si chiama ‘plain fact view’ ovvero l’idea secondo cui il diritto sia un ‘fatto’ che possa essere colto nella sua oggettività e che possa essere descritto in questa sua fattualità anche se carico di valori. Chiedersi, quindi, se si è giuspositivisti o meno significa prendere posizione su questa questione e chiedersi non solo – e come vedremo, forse non tanto – se il diritto possa essere descritto come un fatto senza alcuna adesione ad esso, ma soprattutto se sia opportuno, se sia utile e vantaggioso sotto il profilo pratico e teoretico assumere un atteggiamento del genere (ammesso, lo si ripete, che esso sia praticabile).
Messo in questi termini, discutere di positivismo e antipositivismo tra i filosofi del diritto è sicuramente sensato e intrigante; il problema, però, è che la critica alla ‘plain fact view’ è ormai piuttosto risalente, ha fatto molti adepti, fino al punto da chiedersi se serva ancora contribuire con un’altra bocca da fuoco all’artiglieria antipositivista.
La critica è senza dubbio risalente perché, ad esempio, è dalla fine degli anni Sessanta che Ronald Dworkin inizia il proprio lavoro di contestazione al giuspositivismo hartiano1. Se ci si sposta sul continente europeo, è più o meno nel medesimo torno di tempo che Norberto Bobbio e Uberto Scarpelli, i principali alfieri del giuspositivismo italiano, prendono consapevolezza delle contraddizioni intrinseche di questo approccio e della sua sterilità conoscitiva rispetto allo Stato sociale e costituzionale di diritto2. Se si vuole, si può anche risalire a qualche decennio prima, quando al termine del secondo conflitto mondiale si levò un’ondata critica nei confronti del positivismo giuridico parlando addirittura di ‘rinascita del diritto naturale’3 …
Non vale replicare che l’antipositivismo potrebbe rivelarsi utile per costruire concezioni generali del diritto alternative al giuspositivismo. Non siamo più ai tempi in cui i filosofi del diritto si suddividevano in giusnaturalisti (di solito di ispirazione cristiana), giuspositivisti (kelseniani o hartiani) e, infine, giusrealisti (per certi aspetti una variante ancora più radicale di giuspositivismo). A partire dagli anni Settanta la critica al giuspositivismo è servita come cartone preparatorio per interi affreschi sul diritto, che potrebbero sicuramente reggere il confronto con una Dottrina pura del diritto o con un Il concetto di diritto: si pensi alla teoria del diritto come integrità di Dworkin, alla filosofia del diritto di C.S. Nino, alla teoria del diritto e dell’argomentazione giuridica di Robert Alexy, alla teoria discorsiva del diritto di Jürgen Habermas4.
Insomma, se si adotta una prospettiva storica interna alla filosofia del diritto è difficile continuare a sostenere che il diritto sia un ‘mero fatto’. Molto spesso, anzi, accade che coloro i quali vedono nel diritto un ‘fatto’ lo connotano, poi, di così tante caratteristiche da divenire quasi indistinguibile da un ‘valore’5. Se, poi, c’è ancora qualcuno che si ostina a sostenere questa concezione come se fossimo ancora negli anni Sessanta – quando le democrazie costituzionali non erano così diffuse, esisteva ancora l’Unione Sovietica e l’apartheid in Sudafrica –, costui corre il rischio di far la fine dei cd. holdouts giapponesi alla fine della Seconda guerra mondiale: soldati che continuavano a sparare contro qualsiasi cosa rassomigliasse ad un nemico e ai quali non era stato detto che la guerra era stata persa…
Si potrebbe sostenere, allora, che è bene perseverare nell’antipositivismo perché ancora persuasi che il diritto sia un ‘fatto’ non sono i filosofi del diritto, ma i giuristi di diritto positivo. La giurisprudenza, si dice, è vischiosa: innovazioni già consolidate sul terreno filosofico o scientifico richiedono tempo per penetrare nella cittadella dei giuristi; pertanto, questi continuano a venerare vecchie divinità, ad aderire a superate concezioni generali del diritto, in attesa che quelle innovazioni siano tradotte nel ‘codice’ con cui i giuristi comunicano fra di loro6.
Anche in tal caso, però, si può avanzare qualche dubbio. Innanzitutto, è difficile oggi trovare sostenitori del ‘Gesetz ist Gesetz’ e non foss’altro che per un dato del tutto ovvio per cui la stragrande maggioranza degli ordinamenti giuridici contemporanei è caratterizzata da costituzioni rigide, le quali hanno positivizzato tutto il contrario del ‘Gesetz ist Gesetz’ ovvero – per usare la famosa formula di Gustav Radbruch – il ‘gesetzliches Unrecht’7. È vero che non c’è alcun automatismo fra l’avvento delle costituzioni contemporanee – lunghe, programmatiche e rigide – e la crisi del positivismo giuridico: la ‘rinascita del diritto naturale’ cui si è accennato in precedenza si risolse in un fuoco di paglia; e sotto un profilo strettamente teorico si può essere giuspositivisti anche con una costituzione rigida garantita da un controllo di costituzionalità – non si dimentichi, del resto, che il padre putativo della giustizia costituzionale nel continente europeo è indicato in Hans Kelsen.
Tuttavia, molto forte è il sospetto che questo giuspositivismo dei giuristi sia divenuto solo di facciata, senza alcuna pretesa di trarne conseguenze operative: quasi che, nel declinare le proprie generalità giusfilosofiche, il giurista non sappia trovare risposta migliore, lasciando intendere, però, che i giochi sulla propria identità si fanno altrove. In altri termini, il diritto non può che essere un ‘fatto’ perché non lo si saprebbe definire diversamente – e le alternative sul mercato delle idee (ad es., il diritto come valore; il diritto come ars boni et aequi etc.etc.) hanno un sapore decisamente retorico. Senonché, nel momento in cui si entra nel dettaglio di questo ‘fatto’ e se ne desumono delle conseguenze pratico-operative, il medesimo giurista si rende conto che non è affatto facile rilevarlo descrittivamente, soprattutto con costituzioni che, a causa del controllo di validità delle leggi, richiedono sovente operazioni interpretative tutt’altro che descrittive e tutt’altro che banali. Insomma, saremmo tutti giuspositivisti, perché che altro potrebbe studiare un giurista se non il diritto esistente, il diritto positivo? Non appena, però, si chiede cosa sia quel ‘fatto’ chiamato ‘diritto (positivo)’ le risposte sono così varie che proclamarsi giuspositivisti è come confessare di essere apolidi. Sarebbe questo, allora, un motivo valido per insistere nell’antipositivismo: dare la spallata definitiva ad un giuspositivismo meramente di etichetta, un po’ come quello criticato da Rudolf Smend negli anni Venti del ‘900 – definito come il “metodo dell’ignoranza intorno al proprio fare” (Smend, 1928, p. 213) –, in modo da rendere i giuristi finalmente consapevoli del “proprio fare” attraverso teorie non positiviste come quelle di un Dworkin, di un Nino, di Alexy.
C’è molto di vero in questa ricostruzione, anche se lascia un po’ perplessi l’idea secondo cui il giuspositivismo dei giuristi sia solo frutto di vischiosità, sia, per così dire, inerziale. Dopotutto, la stagione del costituzionalismo contemporaneo inizia, almeno formalmente, dopo la fine della seconda guerra mondiale; il dibattito Hart-Dworkin e la crisi del positivismo giuridico italiano esplodono, come detto, alla fine degli anni Sessanta; dopo poco più di settant’anni di storia istituzionale e del pensiero giuridico non propriamente filo-positivisti, ci si sarebbe aspettata una integrale storicizzazione del giuspositivismo – un po’ come si studia oggi l’umanesimo giuridico o il giusnaturalismo moderno…
Sorge, allora, il sospetto che questa sopravvivenza del giuspositivismo vada letta non tanto come un segno della sua vitalità teorica – cosa di cui si può dubitare, come vedremo –, ma come segno di una diffidenza, magari irriflessa, verso ricette alternative come quelle promosse nel libro. Come se al di là della concezione del diritto come un ‘fatto’ si celasse un nodo teorico che l’antipositivismo finora non ha affrontato oppure ha affrontato ma troppo sbrigativamente. Cerchiamo di individuarlo grazie ad un po’ di storia della filosofia giuridica.
III. Un po’ di storia del positivismo giuridico
Partiamo dalla versione canonica di questa storia. Oggi siamo al capezzale del giuspositivismo, ma – si dice – il giuspositivismo è nato al capezzale di una precedente concezione giusfilosofica: il giusnaturalismo. La domanda è: quando il giusnaturalismo tramonta ed entra nei libri di storia?
Ovviamente, la storia delle idee ha scansioni del tutto convenzionali. Ad esempio, si potrebbe datare la fine del giusnaturalismo al 1820, quando Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto non vede più alcun contrasto fra il diritto naturale e il diritto positivo, essendo quest’ultimo concepito come superamento e incorporazione del primo (Hegel, 1820, in particolare §3)8. Ma forse è una data troppo anticipata rispetto alla storia istituzionale, troppo ‘filosofica’: ancora agli inizi del XIX secolo l’ascendente giusnaturalistico è ancora troppo forte se si pensa che nel progetto preliminare del codice napoleonico era previsto il rinvio alla “legge naturale” in caso di “mancanza di una legge precisa”9.
È questa la ragione per la quale personalmente preferisco una data più avanzata nel corso dell’Ottocento, quando il processo di introiezione del diritto naturale presso i giuristi può forse dirsi completo. Si tratta del Rektoratsrede che Bernhard Windscheid tenne nel 1854 all’atto di insediarsi quale rettore dell’Università di Greifswald, ove dichiara, un po’ enfaticamente, che “non c’è per noi un diritto assoluto. Il sogno del diritto naturale è svanito” (Windscheid, 1854, p. 9 – traduzione mia). È importante fare attenzione al termine adoperato da Windscheid: il “sogno del diritto naturale” è ‘ausgetraümt’, è letteralmente ‘uscito-dal-sogno’ perché è divenuto realtà, la realtà di un diritto positivo che – aggiunge poco più in là – “è più che pula, è più che un alito che il vento porta via. Noi abbiamo dietro le spalle la saggezza dei secoli e siamo chiamati a collaborare alla saggezza di coloro che verranno dopo di noi” (Windscheid, 1854, p. 9 – traduzione mia).
Sono affermazioni del genere – affermazioni provenienti dall’autore del massimo manuale di diritto civile del XIX secolo – che segnano davvero il trapasso dall’età del giusnaturalismo a quella del positivismo giuridico. Non c’è più bisogno di un diritto naturale che con la propria apollinea normatività stia ad indicare le carenze del diritto positivo e venga magari a soccorrerlo in caso di “mancanza di una legge precisa”. E forse non c’è nemmeno più bisogno di precisare che “il diritto naturale sta al diritto positivo come le Istituzioni alle Pandette” (Hegel, 1820, p. 79) perché ormai “Istituzioni” e “Pandette” sono una sola cosa, la sua “saggezza” storica si è ormai depositata nel diritto positivo e il compito del giurista è contribuire al suo miglioramento.
Spesso ci si dimentica di questa equivalenza. Solitamente con Bobbio si ripete che questo giuspositivismo è il “positivismo come teoria”, legato all’affermazione dello Stato moderno10. E si prosegue ricordando che uno dei suoi segni distintivi stava, oltre che nel suo ‘legicentrismo’, in un carattere comune anche al ‘positivismo come metodo’ ovvero il formalismo: solo il legislatore poteva produrre diritto ed esso era valido indipendentemente dal suo contenuto. Ebbene, ricordarsi dell’equivalenza di cui sopra significa tener presente che questo formalismo legislativo era direttamente proporzionale alla fiducia nella razionalità del legislatore: in tanto la legge poteva avere qualsiasi contenuto, in quanto si aveva “la fiducia che dagli articoli di giornale, dai discorsi assembleari e dai dibattiti parlamentari scaturiscano la legislazione e la politica vere e giuste” (Schmitt, 1923-1926, p. 72).
Detto altrimenti, il positivismo giuridico ottocentesco in tanto era ‘statualistico’, in tanto poteva permettersi di sostenere che il diritto era valido solo perché prodotto dal legislatore e questi potesse disporre qualsiasi cosa, in quanto aveva realizzato un equilibrio contestabile quanto si vuole (e contestato, poi, come vedremo) fra ‘auctoritas’ e ‘ratio’, fra razionalità in senso formale (ovvero chi produce legittimamente diritto), e razionalità in senso sostanziale (ovvero il contenuto legittimo del diritto stesso). La razionalità sostanziale di cui si presume sia caratterizzata la legge non è altro che quel ‘sogno del diritto naturale’ di cui discorre Windscheid: tramite la codificazione in Francia e la sistematizzazione del diritto in Germania tale sogno era divenuto realtà e invitava a guardare senza timore al legislatore, il quale proprio per questo poteva produrre leggi valide a prescindere dal suo contenuto, ritenendo impensabile che si potesse, ad esempio, sopprimere la libertà di stampa, negare la proprietà privata in nome del comunismo o introdurre leggi razziali11.
Ecco perché, al contrario dell’opinione comune attuale, il garante della libertà di stampa, dell’eguaglianza giuridica e in generale dei diritti fondamentali del cittadino non era individuato nella figura del giudice, ma non per questo si credeva che i medesimi diritti fossero in balia del puro arbitrio di una maggioranza parlamentare contingente e transeunte. Per adottare un termine oggi radicatosi in teoria del diritto, si potrebbe dire che anche il diritto del XIX secolo era ‘ragionamento’. Esso, tuttavia, non era ragionamento giudiziale – che, a dire il vero, aveva un ruolo tutto sommato secondario ed era banalizzato attraverso la sua stilizzazione sillogistica –, ma un ragionamento, per così dire, ‘legislativo’. Il diritto era tutto ciò che l’intelligenza del legislatore produceva e tale intelligenza stava nella procedura parlamentare che avrebbe garantito, in termini habermasiani, “quella formazione discorsiva dell’opinione e della volontà che si realizza in forme comunicative a loro volta giuridicamente tutelate”12.
Dopo il primo conflitto mondiale quell’equilibrio fra ‘ratio’ e ‘auctoritas’ si spezza. Da un lato, la razionalità contenutistica della legge viene tacciata di ideologia borghese; dall’altro lato, con l’allargamento del suffragio elettorale il legislatore non viene più visto come un legittimo forum deliberativo, ma come un’arena per il compromesso ed il negoziato di interessi e valori. C’è tutto un ordine giuridico-politico da (ri)costruire con l’avvento della società di massa e di organizzazioni politiche e sociali solidamente strutturate (leggi: partiti di massa; sindacati). Ci provano a farlo le costituzioni contemporanee come quella di Weimar, ma mentre il positivismo giuridico del XIX secolo aveva potuto far leva su una riflessione giusnaturalistica che aveva tenuto a battesimo i principi fondamentali del diritto pubblico e del diritto privato ottocenteschi, non altrettanto può dirsi per la stagione del costituzionalismo contemporaneo. Non ci si può più permettere la perentorietà (e anche la brevità) di una ‘Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino’ che all’indicativo presente definisce i “diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo”, ma occorre una carta che attraverso la propria lunghezza dia riconoscimento al pluralismo economico e politico delle società contemporanee e che con la sua programmaticità ricordi a tutti che “l’ordinamento della vita economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo” (art. 151, primo comma, della Costituzione di Weimar). Queste “norme fondamentali della giustizia” e questa “esistenza degna” non possono vantare una speculazione filosofica paragonabile a quella che hanno portato a sancire “libertà, proprietà, sicurezza e resistenza all’oppressione”: sono mete da raggiungere e soprattutto da specificare nel corso del cammino, di qui l’esigenza di proiettare nel futuro e di formulare in termini programmatici quella razionalità in senso materiale che, invece, nel secolo precedente rappresentava un dato di fatto pressoché oggettivo di cui limitarsi a sanzionare le deviazioni.
Ciò può spiegare forse perché lo sguardo dei giuristi verso le costituzioni contemporanee rimanga ancora ottocentesco. Manca un equivalente funzionale del giusnaturalismo moderno che possa alimentare un in idem sentire de constitutione. Quella lunghezza viene scambiata per inutile prolissità dinanzi all’eleganza e all’essenzialità delle carte costituzionali ottocentesche; e la programmaticità è interpretata come imperdonabile vaghezza, se non come mera accozzaglia di progetti per l’avvenire e di sogni irrealizzabili, con l’unico scopo di occultare l’autentica natura di queste costituzioni: un “compromesso formale di tipo dilatorio” (Schmitt, 1928, p. 52), buono solo a far guadagnare tempo in vista della battaglia politica decisiva che decreterà un solo vincitore (e molti perdenti).
Inizia qui un altro positivismo giuridico. È il positivismo giuridico che è a noi più familiare, perché è quello rappresentato dalla teoria di Hans Kelsen. Ma è un positivismo giuridico altro rispetto a quello ottocentesco perché non vuole tornare indietro nel tempo quando il diritto naturale era ancora un “sogno”, e purtroppo la realizzazione di questo “sogno” è percepita ora da una parte consistente della società come un vero e proprio incubo (ideologico). Di tutto questo dà conto la concezione kelseniana del diritto: occorre prendere atto del divorzio fra ratio e auctoritas; la prima è lasciata al suo destino relativistico e solo la seconda può rappresentare l’unico (e tenue) velo che possa occultare la crudezza del volto di Medusa. Il diritto rimane un fatto, così come insegnava anche il positivismo giuridico ottocentesco, ma è una continuità del tutto ingannevole: il fatto di cui consiste il diritto è divenuto bersaglio di Entzaüberung; è un fatto quasi bruto, in cui il grado di istituzionalizzazione può essere così basso da permettere davvero “qualsiasi contenuto”. Esso non può che essere qualsiasi perché ritenere il concetto di diritto coestensivo rispetto ad un suo specifico contenuto significherebbe trascinarlo nel vortice della contestazione e dell’ideologizzazione: persino quando esso si carica di principi ‘alti’ come la dignità e la libertà personale, il loro significato è sempre affidato alla contingente e decisionistica interpretazione dell’autorità che garantisce l’effettività dell’ordinamento.
Forse, in quel torno di tempo, se la filosofia del diritto non voleva essere condannata al velleitarismo non si poteva fare di meglio. Certo è che un positivismo giuridico del genere non offre un buon servizio a costituzioni democratiche tese a cercare una nuova razionalità materiale. Si pensi alla perseveranza con cui Kelsen pratica un approccio solo strutturalistico al diritto, ove la considerazione della funzione viene vista come una sorta di piano inclinato che porta dalla scienza alla politica del diritto13. Oppure si pensi alla esasperata centralità della coazione che obbliga a qualificare tutte le norme che non dispongano la sanzione, persino i principi costituzionali che rappresentano il nucleo duro di un dato ordinamento, in termini di “frammenti di norme”14. Persino quella manifestazione di razionalità che meno potrebbe avere risvolti politici e che susciterebbe un consenso non particolarmente oneroso – la logica – non è in grado di imporsi al diritto: essa vale se e solo se l’autorità competente decida di applicarla e, se questa decisione non giunge, nessuna opinione potrà scalfire la validità giuridica, ad esempio, di una legge palesemente incostituzionale15.
Il risultato è una sorta di paradosso. Colui il quale sul terreno strettamente filosoficopolitico è animato da una sincera adesione alla democrazia pluralistica; il giurista che propone l’istituzione di tribunali costituzionali perché sarebbero i migliori strumenti per garantire il “costante compromesso fra i gruppi che la maggioranza e la minoranza rappresentano in parlamento” (Kelsen, 1928, p. 202); il medesimo interprete che edifica una concezione del diritto potentemente demistificante nei confronti del positivismo giuridico ottocentesco fino al punto da sostenere che “i commentari «scientifici» che debbono servire d’aiuto per l’esecuzione della legge, hanno un carattere assolutamente politico-giuridico, sono paragonabili a progetti di legislazione” (Kelsen, 1934, p. 123); ebbene, la medesima persona è anche colui il quale non permette alle costituzioni contemporanee di sviluppare le proprie potenzialità e, anzi, suggerisce di escludervi quelle disposizioni che “invitano il legislatore a conformarsi alla giustizia, all’equità, all’eguaglianza etc.” (Kelsen, 1928, p. 189). Sotto un profilo strettamente scientifico disposizioni del genere non hanno altro significato che “tanto il legislatore quanto gli organi preposti all’esecuzione della legge sono autorizzati a riempire discrezionalmente lo spazio loro lasciato dalla costituzione e dalla legge” (Kelsen, 1928, p. 189). Se introdotte in costituzione, addirittura non invitano ad un atteggiamento engagé – com’è richiesto oggi ai giuristi –, ma addirittura vanno guardate con sospetto – perché permetterebbero di trasformare in diritto “la concezione della giustizia della maggioranza dei giudici” (Kelsen, 1928, p. 189).
IV. La crisi contemporanea del positivismo giuridico
Di questo paradosso il libro di La Torre dà ampiamente conto. E la parte in cui tutto ciò emerge con maggiore nitidezza e persuasività è quella dedicata alla parabola del positivismo giuridico italiano. È una vicenda culturale degna di interesse non solo in sé, ma anche per l’importanza che la filosofia italiana del diritto aveva all’epoca. Quella tedesca aveva bruciato le sue eccellenze fra adesione al nazismo ed esilio all’estero; la jurisprudence in lingua inglese doveva ancora diventare egemone grazie al contributo hartiano; quella in lingua spagnola poteva vantare una valida tradizione di studi soprattutto in Argentina, ma in un po’ tutto il continente latino-americano come pure in Spagna doveva fare i conti con regimi autoritari e repressivi.
La prima osservazione da fare è che, nonostante l’Italia, al contrario della Germania, abbia potuto dotarsi di una costituzione prodotta da un’assemblea costituente eletta a suffragio universale maschile e (per la prima volta) femminile, la filosofia del diritto ha impiegato del tempo a coglierne la novità. La ragione è comprensibile: il clima politico è teso a causa della incipiente guerra fredda; l’esperienza nazi-fascista ha ridato le ali ad un giusnaturalismo cattolico che è, però, del tutto improponibile dinanzi allá vocazione pluralista e corposamente socialista della nuova Costituzione; d’altro canto, anche la cultura politica di sinistra è ancora legata alla diffidenza verso il diritto propria dell’ortodossia marxista. In questo quadro la scelta di Norberto Bobbio e Uberto Scarpelli di promuovere la diffusione del positivismo giuridico kelseniano in una chiave metodologica analitica si rivela, anzi, persino salutare: essa spinge i giuristi ad una maggior autoconsapevolezza epistemologica e a svincolarsi dal vecchio giuspositivismo ottocentesco; e i filosofi del diritto a praticare una ‘filosofia del diritto dei giuristi’ ovvero una filosofia del diritto non autoreferenziale, ma attenta alle concrete pratiche giuridico-positive.
Senonché il contesto complessivo in seno al quale queste pratiche si svolgono non è quello d’anteguerra e proporre Kelsen ora, anche accompagnato da strumenti filosofico-linguistici accurati, si rivela una scelta poco lungimirante. Nonostante la fiammata giusnaturalistica, i giuristi rimangono legati alla nozione di diritto come fatto, ma è un fatto che ora è molto meno divisivo di quanto accadeva negli anni di Weimar e la convergenza – ormai quasi necessitata, dopo aver sperimentato i costi del dissenso radicale – verte non solo e non tanto sulle procedure volte alla produzione di una decisione democraticamente legittima – l’auctoritas –, ma proprio su ciò che Kelsen riteneva scientificamente del tutto malfermo – quei principi di cui è intessuta la razionalità sostanziale della Costituzione. Questo contenuto va ora preso sul serio: non è più possibile sostenere che impegni come quelli espressi dall’art. 3, comma 2, della Costituzione italiana siano solo raccomandazioni (e non norme), peraltro rivolte solo al legislatore, del tutto generiche e soprattutto non coercibili. Occorre, invece, trovare dei criteri razionali che consentano di affermare giustificatamente che un legislatore non si stia adoperando affatto nel rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E tutto questo non per permettere al legislatore di dar politicamente conto del proprio impegno (o disimpegno) nell’attuare la Costituzione, ma più banalmente perché ci sono sempre più giudici che chiedono alla Corte costituzionale se il medesimo legislatore abbia giuridicamente sbagliato rispetto al medesimo art. 3, comma 2, della Costituzione.
È soprattutto Scarpelli a cogliere l’inadeguatezza dell’approccio kelseniano e ad esprimere l’esigenza di sintonizzare il giuspositivismo con la stagione del costituzionalismo contemporaneo (cfr., in particolare, Scarpelli, 1965). In questa stagione, la legittimità giuridica non sta più solo nel rispetto dei criteri di validità procedurale indipendentemente dal contenuto dell’atto normativo prodotto: ora anche il contenuto contribuisce a determinare la validità giuridica, non foss’altro perché vi sono istituzioni – i tribunali costituzionali – che hanno il compito di giudicare della costituzionalità delle leggi anche sotto il loro profilo materiale e sulla base proprio di quei principi che Kelsen giudicava inopportuni in una carta costituzionale.
In un contesto del genere si può continuare a praticare il giuspositivismo così come lo intendeva Kelsen e, quindi, si può continuare ad individuare la legittimità giuridica solo nella prestazione autoritativa della procedura. Il problema è che un giuspositivismo del genere finisce con l’essere inutile. Si badi: non si tratta solamente della critica – che ormai è divenuto un refrain – di inutilità della norma fondamentale kelseniana: essa sarebbe superflua perché non è in grado di evitare la cd. fallacia naturalistica, è incapace di trovare un criterio del giuridico diverso dalla ‘forza normativa del fattuale’ (cfr. Scarpelli, 1965, p. 88, ma anche il suo intervento in AA.VV., 1967, p. 84)16. Per Scarpelli, infatti, se si assume la veste di operatore all’interno di un dato ordinamento, in breve, se si assume l’hartiano ‘punto di vista interno’, l’individuazione di ciò che è diritto non è atto descrittivo, ma è il prodotto di una scelta, anche quando si usa la norma fondamentale kelseniana ovvero anche quando si ritiene valido ciò che è effettivo17 – di qui l’invito rivolto da Scarpelli agli operatori a ‘scegliere’ una effettività non qualsiasi, ma liberal-democratica. Ciò, per Scarpelli, non significa negare la natura scientifica del punto di vista esterno, in sintonia con quanto Hart osservava ovvero che “nessun vantaggio per lo studio teorico e scientifico del diritto come fenomeno sociale deriva dall’adozione del concetto più ristretto: esso ci condurrebbe ad escludere alcune norme anche se queste manifestano tutte le altre complesse caratteristiche delle norme giuridiche” (Hart, 1961, p. 244).
Ma è proprio questo il problema – e l’inutilità più seria di cui qui si discorre. Il punto di vista esterno sarà pur sempre descrittivo e scientificamente fondato, ma è di scarso aiuto in sede interpretativa, perché il punto di vista di un operatore è il punto di vista interno, un punto di vista che comporta scelte e valutazioni. Di conseguenza, con le costituzioni del secondo dopoguerra e la messe di principi da essi proclamati non ha più senso elencare le possibili soluzioni interpretative offerte da esse, in modo da definire una ‘cornice’ (kelseniana) entro cui il legislatore sarebbe libero di scegliere l’una o l’altra. E non basta nemmeno quella prospettiva più moderata – offerta da Hart – secondo cui tutte le norme, anche le norme costituzionali, posseggono un “nucleo di significato certo” che è suscettibile di una descrizione distaccata indipendentemente dal punto di vista adottato. Entrambe le posizioni teoreticamente sono forse ancora valide, soprattutto quella hartiana; il problema è che esse non servono più. Al giurista non è più richiesto solamente di descrivere il pedigree autoritativo delle norme e svolgere la propria attività “indiscutibilmente guidata da norme, nelle vaste aree centrali del diritto” (Hart, 1961, p. 181), ma di prescrivere ciò che il diritto dispone a partire da principi costituzionali che indicano finalità da raggiungere e spesso in maniera decisamente indeterminata e senza alcuna indicazione dei mezzi per poterli conseguire. Pertanto, soluzioni come quelle kelseniane o hartiane non sono più un tirarsi fuori dalla mischia (ideologica) in nome della scienza, ma finiscono con l’essere tutto il contrario ovvero rendere impossibile il compito dell’interprete.
Se si vuole, è questo il peccato capitale del positivismo giuridico novecentesco. Come giustamente rileva Massimo La Torre (2019, p. 178):
Ammesso pure che un concetto del tutto descrittivo di diritto sia possibile, il giurista positivista dovrebbe allora limitarsi a un lavoro di accertamento di possibili condotte ovvero di determinazione di probabilità statistiche oppure di ricognizione di possibili significati. Non potrebbe però mai concludere che un significato o un modello di condotta è quello obbligatorio in un certo caso. Ciò infatti lo condannerebbe a rinnegare se stesso, che con tanto orgoglio si presenta e si autocelebra come ‘tecnico’ o ‘scienziato’ del diritto. Un concetto meramente descrittivo (esterno) di diritto sarebbe irrilevante dal punto di vista di chi deve decidere. Il lavoro dello “scienziato” giuspositivista non servirebbe allora a niente proprio sul terreno in cui egli ritiene d’essere maggiormente competente e giustificato: quello della pratica del diritto.
È questa la consapevolezza che Bobbio e Scarpelli maturano tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, parallelamente a quanto Dworkin criticava di Hart. Si può continuare ad essere kelseniani o – in maniera più sofisticata – hartiani ovvero a provare a descrivere dal punto di vista esterno quella pratica chiamata ‘diritto’ tenendo conto, però, dell’uso del linguaggio normativo: questo punto di vista sarà pur sempre praticabile, ma rischia di confinare il teorico del diritto (e il giurista di diritto positivo che intenda seguirlo) ai margini del campo di gioco, attento a curare le linee del campo e la integrità della rete, ma senza alcuna chance di partecipare al gioco e soprattutto di capirne lo sviluppo18.
È qui, però, che si colloca un equivoco nell’interpretazione della crisi del positivismo giuridico – e le verosimili ragioni della diffidenza dei giuristi nei confronti dell’antipositivismo. Tale crisi dimostra che quel ‘fatto’ di cui consiste il diritto non è più così tanto ‘mero’. A meno che non si voglia ridurre la teoria del diritto alla sola razionalità procedurale di poteri cui si chiede solo di essere effettivi per essere giuridici, occorre ora descrivere il contenuto delle pratiche dei giuristi: nel farlo si scopre non solo che essi creano il diritto e non lo descrivono, ma soprattutto che descrivere queste pratiche è, sebbene possibile, interpretativamente povero, salvo che non ci si impegni in valutazioni morali e giudizi di valore. Da qui, allora, si è inferito una sorta di cambio di paradigma all’interno della filosofia del diritto e indirettamente anche della pratica giuridica: divenuta insostenibile la separazione fra diritto e morale, si è giunti, più o meno consapevolmente, all’idea secondo cui il compito dello studioso sia interpretare il diritto “nella sua luce migliore” senza considerare chi applica il diritto; e si è gradualmente transitati da un’immagine del diritto come medium fra la fattualità del potere e la normatività della morale ad un’altra in cui il discorso giuridico è divenuto un caso particolare del discorso morale. Insomma, la crisi del positivismo giuridico novecentesco non è stata interpretata come l’esigenza di stabilire un nuovo equilibrio fra chi decide e che cosa si decide – così come aveva realizzato la giurisprudenza ottocentesca con il suo positivismo statualistico –: il positivismo giuridico tout court è stato associato esclusivamente all’auctoritas e la sua improrogabilità è divenuta l’occasione per fare filosofia del diritto privilegiando la sola ratio, dedicando grande attenzione a cosa si argomenta, a come si argomenta ma non anche a chi argomenta19.
Di questa oscillazione in senso diametralmente opposto sembra essere consapevole La Torre stesso, per il quale la fine del positivismo giuridico non autorizza certo a coltivare nuovamente il ‘sogno del diritto naturale’. Non sono pochi i passaggi del libro dai quali emerge che una considerazione teorica del diritto che sia incentrata sulla sola razionalità in senso sostanziale, che faccia del diritto una ragione per agire (ben sapendo che l’unica vera ed autentica ragione per agire è solo quella morale), che faccia del diritto un’impresa esclusivamente cooperativa, va incontro ad una serie di problemi.
Si pensi, ad esempio, alla critica mossa da La Torre a John Finnis. In questo autore la dissociazione fra razionalità in senso sostanziale e razionalità in senso procedurale giunge fino al punto da separare del tutto il diritto naturale – imperniato su una teoria dei beni fondamentali – dal diritto positivo, che in tanto esiste, in quanto sia prodotto da un’autorità effettiva. Ciò che è essenziale è che questa autorità si orienti al perseguimento dei beni fondamentali, indipendentemente da come tale autorità sia venuta ad esistenza e come funzioni – un principio, per La Torre, “forse scandalosamente crudo”20 e che “rende il tradizionale problema della giustificazione del potere politico del tutto futile” (La Torre, 2019, pp. 151). Oppure si pensi alla scuola di Sheffield, che, ad avviso di La Torre, è persino più radicale di Finnis stesso perché per i suoi esponenti “la legittimità del diritto deriva essenzialmente dalla capacità di questo di operare mediante il principio morale fondamentale, e ciò ha un carattere básicamente cognitivo. Le istituzioni politiche e giuridiche in questa prospettiva hanno un valore meramente strumentale” (La Torre, 2019, pp. 154-155).
Ma forse l’autore in cui questa disconnessione fra ‘ratio’ e ‘auctoritas’ è più evidente come più evidenti sono i suoi paradossali effetti è Carlos Santiago Nino. Nino è colui il quale sviluppa in maniera del tutto consequenziale la nozione di norma come ragione per agire. Se le norme non sono – come Kelsen le intendeva – schemi di qualificazione della realtà, non sono – come pretendeva Ross – ipotesi predittive sul futuro comportamento dei giudici, ma costituiscono, a partire da Hart, una pratica in cui determinate considerazioni ‘contano a favore’ di una data condotta, è comprensibile che il tipo più genuino di norma non possa che essere morale. Il diritto non è un fatto, non può esserlo perché non basta rispettare l’hartiano pedigree o il kelseniano principio di delegazione perché si producano ragioni per agire degne di questo nome. Di qui il suo ben noto “teorema fondamentale della filosofia del diritto” in virtù del quale una norma giuridica può davvero vincolare se e solo se sia riconducibile, in ultima analisi, ad un giudizio morale.
Senonché giustamente La Torre (2019, p. 180) si chiede: “Se il diritto trae i propri argomenti normativi (giustificatori) da principi morali, a che serve allora il diritto?”. Detto altrimenti: ha senso un’autorità, qualunque essa sia – dal più autocratico dei dittatori fino alla democrazia diretta –, in un mondo dove le norme di comportamento possono essere ricavate individualmente grazie alla nostra moral agency? Nino replica che, in realtà, essa serve perché non è pensabile che la coordinazione sociale possa basarsi sulla capacità conoscitive morali del singolo individuo: solo una somma di queste capacità – somma che non può che essere ovviamente democratica – può rimediare all’incompetenza epistemica del singolo.
L’esito ultimo di tutto ciò è, però, paradossale, per La Torre. Non solo si introduce in campo morale un’istanza autoritativa con buona pace di quanto ricordava Hart per il quale “l’idea di un potere legislativo morale con la competenza di creare e mutare la morale, come i provvedimenti legislativi creano e mutano il diritto, è ripugnante all’intera nozione di morale” (Hart, 1961, p. 208). Ma soprattutto, a detta di La Torre, l’antipositivismo di Nino si rovescia in qualcosa che va addirittura oltre il positivismo ottocentesco (per il quale la morale non si esauriva nel diritto): “L’autonomia morale individuale deve retrocedere dinanzi all’autorità epistemica collettiva. Questa è infine la conclusione di Nino, la quale sembra cosí riproporre la tesi del positivismo ideologico sia pure con un’importante modifica: non ogni legge è legge (ragione giustificatrice dotata di forza obbligatoria), ma solo la legge democratica” (La Torre, 2019, p. 185).
Con queste osservazioni, si badi, non si intende affatto contestare il fine perseguito dall’antipositivismo. “Il sistema giuridico può metterci in prigione, può appropriarsi dei nostri soldi, e in certi casi può anche fustigarci e ucciderci” – scrive Schauer (2015, p. 29) – e si può essere giustamente scettici sulla possibilità che un giuspositivismo ancorato alla sola dimensione dell’auctoritas ci metta al riparo dall’uso omicida del diritto21.
Ancor meno utile a tale scopo è il realismo giuridico. La Torre non dedica grande attenzione ad esso e se ne comprende il motivo. “Il realismo è una versione disincantata di giuspositivismo” (La Torre, 2019, p. 223): un approccio al diritto che in misura maggiore rispetto al giuspositivismo abbandona il ‘punto di vista interno’ al suo destino di irrecuperabilità razionale. Di questo ‘punto di vista’ si può offrire una ricostruzione indirettamente per il tramite della psicologia e della sociologia, ma se si assume la prospettiva del partecipante il diritto è – per dirla con Alf Ross – “tû-tû”: “La nostra terminologia e le nostre idee conservano una notevole rassomiglianza strutturale col pensiero magico primitivo concernente l’invocazione di poteri soprannaturali che a loro volta si tramutano in conseguenze fattuali” (Ross, 1957, p. 173). Con ciò, si badi, non si vuole negare l’utilità di uno sguardo realistico e, quindi, anche critico sul diritto vigente. Se si vuole, l’esigenza di considerare il diritto per come realmente esso è risale alla crisi del giuspositivismo ottocentesco – e la si può toccar con mano proprio nell’invito di Kelsen a guardare oltre il ‘velo’ del diritto positivo. Da allora in poi, anzi, si può dire che la critica del diritto sia divenuta compito, per così dire, istituzionale del filosofo del diritto e in fin dei conti Il diritto contro se stesso in parte ne è una esemplificazione. Non è un caso che da sessant’anni a questa parte ad essere in crisi è il giuspositivismo, non il giusrealismo e forse, proprio in virtù di questa sua carica critica, esso non entrerà mai in crisi: se si intende per realismo un approccio al diritto che lo faccia vedere per quel che è e non per quello che i suoi utenti dicono che esso sia, ci sarà sempre bisogno di essere realisti.
E tuttavia, proprio per questo il realismo giuridico è una sirena insidiosa. Occorre resistere al suo canto e al fascino delle posizioni solamente critiche ed eterodosse se non si vuole andare a finire su due scogli complementari. O, nel tentativo di cogliere la ‘realtà’ di quel fatto che è il diritto, cadere inavvertitamente in un essenzialismo privo di storicità e fondamentalmente pessimistico, in cui il diritto non può permettersi alcuna idealità, potendolo qualificare come razionale solo nella misura in cui funzioni come mezzo adeguato allo scopo22. Oppure rimanere ancorato ad una dimensione esclusivamente critica, sicuramente nobile perché schierata dalla parte degli esclusi e dei diseredati, ma che diventa affannosa quando si tratta di porsi sul piano costruttivo, quando di tratta di costruire un ‘punto di vista interno’: quando, cioè, occorre superare la mera rivendicazione antagonista, allo scopo di costruire un orizzonte più o meno comune, che non si limiti al riconoscimento sezionale delle innumerevoli differenze sessuali, culturali e sociali23.
Ecco perché posizioni come quelle di La Torre, attivamente impegnate a trovare criteri razionali per una nuova ‘legittimità’, sono certamente promettenti: una filosofia del diritto che non assecondasse la propria vocazione costruttiva sarebbe monca. Ciò che lascia perplessi è il mezzo prescelto per rispondere a questa vocazione: una concezione del diritto in cui o l’autorità esiste solo se si rivolge moralmente ai suoi destinatari (con il rischio della sua inutilità, come detto in precedenza) oppure, se questo appello alla moralità manca, l’autorità si trasforma in nuda violenza ed arbitrio. In questo modo non solo non ci si chiede teoreticamente perché bisogna ricorrere alla minaccia per ottenere ciò che sembrerebbe moralmente doveroso, ma soprattutto ci si dimentica che la ragion d’essere del diritto (almeno quello moderno) inizia proprio laddove la morale non è in grado di darci una risposta. Per dirla con Habermas (1992, p. 222), “se una teoria della giustizia parte con l’assumere immediatamente un punto di vista normativo, tentando di fondare i princìpi d’una società bene ordinata a prescindere dalle istituzioni e dalle tradizioni esistenti, finirà, prima o poi, per scontrarsi con il problema di mettere d’accordo la sua idea astratta di giustizia con la realtà effettuale”. Il diritto, almeno quello moderno, si è incaricato storicamente di realizzare questo accordo fra giustizia e realtà effettuale, soprattutto per evitare quelle alternative poco convincenti secondo le quali il ragionamento giuridico o fornisce l’unica soluzione corretta o, in caso contrario, non è altro che il regno del mero arbitrio: o il diritto è giustizia procedurale perfetta – e di conseguenza è irrilevante chi fa le fette della torta perché sappiamo come la si divide equamente24 – oppure, se questa perfezione non è raggiungibile in concreto, il diritto non è altro che la formalizzazione di chi si prende con la forza la fetta più grande.
È questa, allora, la ragione per cui i giuristi di diritto positivo, nonostante tutto, non si lasciano persuadere dall’antipositivismo; e, correlativamente, è questa la ragione per cui il positivismo giuridico, pur assomigliando ad un pugile ormai suonato, non cade mai al tappeto. Una filosofia propriamente del diritto non dovrebbe trascurare questa regolarità storica del diritto moderno, non dovrebbe dimenticare la sua posizione mediana fra cosa si decide e chi decide, fra ratio e auctoritas. E da questo punto di vista Il diritto contro se stesso è un ottimo strumento affinché i giuristi acquistino questa consapevolezza filosofica, soprattutto poi se il compito consiste nel trovare un velo più resistente agli sguardi pietrificanti di Medusa.
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Nota
1 Il termine iniziale di questa contestazione può farsi risalire convenzionalmente al noto articolo di Dworkin, intitolato “Il modello delle regole” (Dworkin, 1967).
2 Com’è noto, il testo di riferimento è la famosa Tavola rotonda sul positivismo giuridico (AA.VV., 1967).
3 In Italia, con l’entrata in vigore della nuova Costituzione, si giunse a parlare di ‘diritto naturale vigente’ (cfr. AA.VV., 1951); per quanto riguarda la Germania vi furono espliciti richiami al diritto naturale (cfr. in particolare Wieacker, 1967, vol. 2, pp. 363-369) e, in generale, il clima complessivo era generalmente antipositivistico (cfr. Stolleis, 2014, pp. 151-170).
4 Un discorso a parte andrebbe fatto per Luigi Ferrajoli il quale – come noto – si dichiara apertamente giuspositivista, anche se è un giuspositivismo molto critico nei confronti di quello che lo ha preceduto (in particolar modo, Hans Kelsen) e che egli etichetta come “vetero-positivismo”: cfr. soprattutto Ferrajoli (2016).
5 Cfr. La Torre (2019, pp. 23-25 e soprattutto pp. 115-135) a proposito del dibattito fra giuspositivismo inclusivista e giuspositivismo esclusivista, giudicato da La Torre “dal sapore un po’ scolastico” proprio per i motivi enunciati nel testo. Oppure si pensi alla posizione di Joseph Raz, il quale, pur essendo esclusivista, concepisce una nozione di autorità che, a detta di La Torre (2019, pp. 25 e 118-119), finisce con il recuperare la moralità nella misura in cui pretende di essere legittima.
6 Una versione radicale di questa autoreferenzialità, che poi porta con sé un’immagine tutta funzionalistica e antinormativistica della giurisprudenza, è stata elaborata da Luhmann: cfr. in particolare Luhmann (1981).
7 Il riferimento è al noto articolo intitolato “Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht” (Radbruch, 1946).
8 Ma la critica hegeliana al diritto naturale è risalente: cfr. Hegel (1802).
9 Si tratta del famoso art. 11 del progetto secondo cui “dans les matières civiles, le juge, à défaut de loi précise, est un ministre d’équité. L’équité est le retour à la loi naturelle, ou aux usages reçus dans le silence de la loi positive”.
10 Cfr. Bobbio (1996, passim ma soprattutto pp. 245-250).
11 Tanto è vero che, per fare un esempio, uno dei più importanti giuristi italiani di diritto pubblico fra XIX e XX secolo – Vittorio Emanuele Orlando (cfr. Orlando, 1928) – giunse a dubitare della natura giuridica dell’ordinamento della allora neonata Unione Sovietica, proprio in virtù di un positivismo giuridico di stampo ottocentesco che non era disposto a riconoscere la giuridicità di Stati perfettamente funzionanti ma irriducibili all’ideologia giuridica liberale.
12 Il che spiega perché i giuristi del XIX secolo vedevano come oggetto specifico della scienza del diritto pubblico molto più le procedure (ad es., la nozione di legge; i suoi rapporti con i poteri normativi dell’esecutivo; la responsabilità ministeriale) e molto meno i contenuti degli atti di diritto pubblico, in primis i diritti fondamentali: non solo questi contenuti erano dati per scontati perché sanciti in quei testi sacri che erano i codici, ma comunque non meritavano particolare attenzione scientifica perché la loro legittimità era assicurata dalla legittimità della procedura adottata per produrli.
13 Cfr., ad es., Bobbio (1977).
14 Cfr. in senso critico, ad es., Bulygin (2006, p. 220).
15 Lo sottolinea molto chiaramente Ferrajoli (2016, in particolare pp. 157-190).
16 Bobbio (1981) giungerà a sostenere che la norma fondamentale è “un espediente ingegnoso ma tutto sommato perfettamente inutile” (p. 568).
17 Cfr. sempre l’Intervento di Uberto Scarpelli in AA.VV. (1967, p. 84).
18 Anche il giusrealista Ross era convinto che, per fare scienza del diritto, non bastasse semplicemente conoscerne le regole, ma anche la sua ‘teoria’, così come non si conosce il gioco degli scacchi solo perché si sono imparate le sue regole di gioco “perché i giocatori sono guidati da altre cose oltre le regole degli scacchi, cioè dallo scopo di giocare e dalle proposizioni di teoria degli scacchi concernenti le conseguenze delle mosse secondo le regole del gioco. La stessa cosa si verifica nel diritto” (Ross, 1958, p. 21). Nello studio della ‘teoria’ ha, per Ross, una grande importanza proprio l’interpretazione che, però, è “una interpretazione costruttiva, conoscenza e valutazione ad un tempo, passività ed attività” (Ross, 1958, p. 132).
19 Lo stesso dicasi anche per il filosofo del diritto che forse più degli altri ha raccolto il testimone lasciato da Scarpelli ovvero Luigi Ferrajoli. In effetti, il positivismo giuridico di Ferrajoli può considerarsi una riformulazione del “positivismo giuridico come teoria” (secondo la tripartizione bobbiana), ove, però, la ‘teoria’ non è quella dello Stato ottocentesco, bensì quella dello Stato costituzionale di diritto. Tuttavia, in Ferrajoli l’azione combinata dei “principia iuris tantum” e dei “principia iuris et in iure” finisce con il produrre un ridimensionamento dell’auctoritas che a conti fatti non è molto diverso da quello caratteristico dell’antipositivismo. Cfr. Ferrajoli, 2016, pp. 135-156, ove il principio di legalità sostanziale caratteristico dello Stato costituzionale di diritto è opposto proprio al giuspositivismo kelseniano; oppure si pensi alla nota avversione ferrajoliana verso la nozione di sovranità (cfr. Ferrajoli, 2007, vol. 1, pp. 853-854, ma soprattutto Ferrajoli, 1997).
20 Questo principio è definito in tal senso direttamente da Finnis stesso: cfr. Finnis (1980, p. 250).
21 Vd. soprattutto La Torre (2019, pp. 135-141), in riferimento al fenomeno della criminalità organizzata e agli effetti disarmanti prodotti dal suo riconoscimento giuridico: sostenere giuspositivisticamente che la mafia è diritto permette di “opporgli un argomento morale, ma mai veramente un argomento ‘giuridico’” (La Torre, 2019, p. 140). Anche se ci si può chiedere quale argomento giuridico possa essere opposto, visto che non vi sarebbe alcun diritto positivo al quale ancorarlo: personalmente, infatti, credo che, quando il diritto si fa aberrante, il discorso giuridico (sia degli specialisti che dell’uomo comune) non abbia più molta utilità e retroceda dinanzi al discorso morale, in particolare, alla scelta morale di resistere o meno. In questa prospettiva il giuspositivismo è maggiormente d’aiuto, perché con la sua indifferenza morale ci avverte che il diritto vigente può anche non coincidere con la nostra morale e mette nella scomoda posizione di dover prendere posizione. Invece, sostenere che c’è diritto solo se esso è giusto finisce con il caricarlo di troppe aspettative, come se esso dovesse svolgere la medesima funzione protettrice (ed assolutoria) propria della morale, rischiando di produrre de-responsabilizzazione.
22 Una variante di questo limite consiste nel monismo metodologico. Si tratta di un modo di essere giusrealisti in cui ad essere, per così dire, ‘reale’ è il metodo di studio e non il suo oggetto ovvero una pratica giuridica che, invece, è del tutto plasmata valutativamente dai suoi utenti. In questo modo, però, si giunge ad un’autocomprensione metodologica che finisce con l’essere molto attenta a ciò che fa il filosofo del diritto e molto poco a ciò che fa il giurista, ritornando – se si vuole, paradossalmente, perché il realismo giuridico era nato dall’idea di considerare il law in action – a praticare una filosofia del diritto dei filosofi (e forse solo dei filosofi del diritto).
23 Come del resto già Olympe De Gouges, autrice della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina del 1791, aveva ben presente quando nella medesima Dichiarazione, all’art. 12, precisava che “la garanzia dei diritti della donna e della cittadina richiede una considerazione maggiore; questa garanzia deve essere istituita a vantaggio di tutti e non solo di quelle cui è affidata”.
24 Ovviamente il riferimento è a Rawls (1971-1999), pp. 96-101.